Mambor, l'orchestra silenziosa

«Un giorno sono venuto a vedere il lavoro della Accardi, qui all’Auditorium e mi è rimasto impresso. Allora Anna mi ha chiesto: vuoi fare una cosa tu? Ed eccomi qui». È altissimo Renato Mambor, indossa un grande cappotto scuro mentre si siede davanti ai suoi strumenti colorati, 10 pannelli di oro, argento, catrame e oli tamponati alla cui estremità risuonano muti ricordi materici di un pianoforte, un charleston o una tromba. Sono verticali e passano in rassegna l’orchestra silente dell’ultimo lavoro del pittore della scuola di piazza del Popolo, che per l’Auditorium Arte si è lasciato ispirare da una frase di Miles Davis: "Mai note burrose”. L’aveva sussurrata durante una jam session al musicista Herbie Hancock, incitandolo al cambiamento, alla sperimentazione. Mambor l’ha fatta sua e giocando con immaginazione e suono ha proposto la sua ultima sperimentazione, assecondando l’imput dello stesso Davis.

«Non sono legato in modo particolare alla musica, mi piace Miles Davis, certo, ammetto di averlo ascoltato durante la lavorazione del progetto, ma in un certo senso mi ha aiutato molto di più il silenzio», racconta Mambor mentre mi guarda e tende l’orecchio verso di me, per ascoltare meglio. È il silenzio che regge il gioco della sua orchestra, gli strumenti appena accennati alla base dei pannelli sono stati fatti per prima, prodotti con l’aiuto dei suoi assistenti: «È così, si lavora tutti insieme», proprio come si suona in gruppo. I colori, applicati con modalità differenti, suggeriscono la sfumatura dei suoni, senza essere per forza caratteristici di quel particolare strumento: «Sono intercambiabili perché il risultato finale è quello di un’orchestra». E dopo la musica viene l’ascolto, aiutato in questo caso dall’estremo silenzio che il percorso espositivo suggerisce: niente jazz di sottofondo, quei pannelli parlano da sé.

A completare l’esposizione la prima sala ospita i primi Oggetti monocromi, i lavori degli anni ’60 con cui ha avviato la sua ricerca verso l’Informale: la tela non è più la personificazione di un sentimento o di una soggettività, lascia il posto alla materia e al colore. La spersonalizzazione continua poi il suo percorso nelle otto shilhouette di legno che a grandezza d’uomo puntellano la sala d’ingresso, lasciando spazio concreto alle ombre degli uomini bianchi in mostra: nere ed evidenti si ricollegano a quelli stilizzati dipinti nello stesso periodo.

Un breve viaggio nel mondo di Mambor che ora sperimenta la musica e il suo modo di ascoltarla, ricalcando i silenzi cromatici e virtuosi di colori sfumati, circolari o compatti, ma non invadenti, mai, perché «la musica è una stazione perfetta che va dritta al cuore».

Info: www.auditorium.com.

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