Spontaneità mentale, concettualismo d’oltreoceano che si concede all’espressione concreta e tangibile di tre installazioni e due video. Anzi, precisamente un video e una serie fotografica montata in sequenza. Ariel Orozco vola in Italia negli ampi spazi bianchi della Federica Schiavo gallery di Roma portando con se da Città del Messico la fermezza della riflessione.
Il percorso espositivo si avvale di tappe installative prive di correlazioni tematiche tra loro, se non per la forza che hanno di essere montate, esposte e vissute solamente dal fruitore più attento: una bicicletta abbandonata fuori dall’ingresso della galleria appare distrutta e quasi irreparabile: è sotto il furto pronto di qualunque ingegnoso che possa rinvigorirne l’utilizzo (e in realtà già ci ha provato) e chi la osserva non sospetta una sua sosia, di forma e misfatto, all’interno della galleria stessa. Si tratta del "Dèjà vu" di Orozco che pone lo spettatore a riflettere sulla differenza tra lo spazio neutro della città e quello adibito ad arte, lo spazio espositivo in cui la bicicletta originale si lascia osservare e non per essere rubata. Ma prima di raggiungerla si è costretti a oltrepassare 150 metri di nylon e pelle, barcamenandosi in una frusta dalle dimensioni spropositate; un sottile senso di claustrofobia arresta il percorso del fruitore che non osa, non sa: «Posso passare? Si può continuare per di là?». In vista del video di una macchina ripresa da una telecamera di sorveglianza. Cinque chilometri e 223 metri di tolleranza misura infatti la distanza impiegata dagli agenti del traffico per interrompere il girotondo continuo di una macchina in circolo sulla rotonda di Naucalpan de Juarez (Città del Messico). Ecco che la frusta cessa di essere un ostacolo e mentre il fruitore si avvicina al monitor in cui è in loop il video, si lascia dietro un oggetto di violenza che in realtà, date le sue spropositate dimensioni, perde ogni possibilità di funzione in cui è riconosciuto. Mentre il loop del monitor procede, tonnellate di semini di Loop appaiono in tutta la loro quantità luminosa nella sala di destra insieme a un canarino rosso che vi saltella sopra; tre le carriole che vi abitano, accasciate stanche sui montarozzi di cibo a simulare l’avvenuto riempimento dei 32 mq di spazio.
Altra tappa, altra sosta: Orozco vuole che si rifletta sull’abbondanza di ciò che ci circonda, in primis il canarino eletto a simbolo dell’umanità e del vizio: sottoposto a una quantità così ampia di benessere da cui si lascia circondare, non riuscirà mai a goderne appieno prima della fine della sua esistenza. Anche qui il cibo perde la sua funzione di benessere primario per acquisire la valenza opposta e confermare appieno la politica espressiva dell’autore. Ma ecco che in fondo al corridoio, nell’ultima sala, torna la bicicletta incidentata, il Dèjà vu dell’ingresso che si contestualizza nello spazio della galleria: undici stampe testimoniano l’avvenuto incidente e la carcassa della bici che giace a terra non può che rimandare a quella abbandonata all’ingresso. «È vero, è lei, l’abbiamo vista fuori» e poi di corsa a ritroso per scoprire se fuori c’è ancora, si è proprio lei.
Appena fuori dalla galleria il cerchio si chiude e al fruitore più attento resta una gustosa e consapevole riflessione: il "ready made" è pronto per essere contemporaneizzato, non gli basta essere allontanato dal proprio contesto riconoscibile per essere altro da sé, con Orozco vive fisicamente la sua decontestualizzazione, poiché non si limita a essere altro ma prosegue il suo stato acquistando una valenza narrativa all’interno del nuovo spazio acquisito. E il gioco continua…
Ariel Orozco
Federica Schiavo gallery, piazza Montevecchio 16, Roma
Info: 0645432028; www.federicaschiavo.com.