«Dovrà essere un po’ quel che il museo Van Gogh è per Amsterdam e il Picasso per Barcellona». Michel Draguet, direttore generale dei Musei reali di Belle arti del Belgio, ci scommette pesantemente. E ha le sue buonissime ragioni. Il nuovo museo Magritte di Bruxelles, presentato il 29 maggio a una schiera di giornalisti da tutto il globo con un’anteprima come non se ne vedevano da tempo, ha ufficialmente aperto al pubblico l’altro ieri, il 2 giugno. Ed è una struttura di assoluto livello, che sboccia in una delle piazze più imponenti della capitale belga, place Royale, completata grazie a una partnership strategica fra l’istituzione diretta da Draguet, la Fondazione Magritte e il gruppo Gdf Suez.
I numeri, d’altronde, parlano da soli: 2.500 mq di spazi, oltre 250 opere di René Magritte in esposizione – metà acquistate e metà in comodato per diversi anni da molte collezioni europee – dalla grafica pubblicitaria alla pittura passando per i cortometraggi, cinque piani e una base d’investimento di quasi sette milioni di euro sborsati da Gdf. Il tutto, a impatto bassissimo grazie a pannelli solari e altri accorgimenti per il risparmio energetico. Insomma, uno di quei gioielli dell’Europa del nord tirati su senza perdere tempo, con gusto ed evitando sprechi.
«La collezione – spiega Draguet – è la più cospicua e importante del mondo. Sono rappresentati tutti i periodi della produzione del maestro, che ha trascorso praticamente la sua intera esistenza qui a Bruxelles eccetto il periodo parigino. È stato interessante abbattere la logica dei dipartimenti, riunendo oltre 250 lavori di Magritte in un’unica struttura». Un museo che, fra l’altro, colma l’abnorme lacuna che Bruxelles si portava appresso – dalla morte di Magritte, nel 1967, non s’era andati oltre un piccolo museo istituito nell’abitazione dei coniugi – e che rilancia quella che è la capitale d’Europa, sede della commissione che proprio in questi giorni guarda con ansia alle incipienti elezioni europee, nel gruppo delle capitali europee dell’arte contemporanea.
Molti dei pezzi sono capolavori assoluti, entrati nell’immaginario collettivo, anche di chi non segue l’arte: dallo strepitoso Impero della luce (1954) a Il ritorno (1940) passando per Shéhérazade (1948) e Black Magic (1945). «Magritte non è stato semplicemente un pittore – prosegue Draguet – ma un poeta che ha sfruttato come suoi strumenti di lavoro le immagini. Il che si lega molto alla tradizione belga». Un surrealismo perfetto per quest’epoca di globalizzazione, forse più moderno oggi che allora: «È possibile. Anche se, non dimentichiamolo, è stato dirompente anche e prima di tutto nella sua epoca. Basti pensare all’impatto sulla pop-art. Oggi quel che è molto attuale è la poetica di Magritte: il fatto, cioè, di non aver mai proposto soluzioni. Piuttosto, di aver lavorato sempre ponendo domande, più domande nello stesso tempo».
L’equivoco, il trompe l’oeil, l’impulso anarchico a ben vedere più dadaista che surrealista nascosto dietro l’animo – e un’intera vita, condivisa con la splendida Georgette – squisitamente borghese, fatta di passeggiate col cane e interminabili pomeriggi al fumoso club Greenwich. E ancora, la sua lucidità – a tratti lancinante – e la sua riflessione sui limiti del linguaggio e l’arbitrarietà delle convenzioni quotidiane, la scoperta dell’autentica realtà, quella che si nasconde sotto la superficie delle cose. Tutto è relativo, la realtà è relativa, l’immagine dipinta (ma anche scolpita o filmata) altro non è che una delle tante interpretazioni del reale. Lavori onirici? Forse. Metafisici? Può darsi, soprattutto dopo la devastante scoperta del nostro Giorgio De Chirico. Tuttavia, quel che rimane del poeta pittore è il suo profetico lavoro sull’oggetto – magistralmente rappresentato nel nuovo tempio belga a lui votato – che dall’ovvietà di ogni giorni muove verso il freddo mistero dell’esistenza.