Media Art, 100 anni di storia e ancora pochi riconoscimenti

Cosa sono le Media art? Cosa si intende con un termine in apparenza così ampio? Ha senso delimitarne il campo, riconoscerlo come autonomo e strutturarne intorno delle teorie? E, qualora la risposta fosse affermativa, quali sono le storie e le archeologie che lo hanno determinato? Sono queste le domande di fondo che hanno portato alla pubblicazione del libro Media Art. Prospettive delle arti verso il XXI secolo. Storie, teorie, preservazione, per Mimesis Editore. Domande che si presentano come generali e fanno da sfondo a una considerazione ampia dell’oggetto. Di quel rapporto fra arte e tecnologia che a nostro avviso pone le sue basi più di cento anni fa. Dopo queste prime domande ne è immediatamente sopraggiunta un’altra: come è possibile che in Italia non sia stato possibile, a differenza di altri Paesi come Germania, Olanda, Stati Uniti, Giappone o Inghilterra, creare un ambiente culturale, un luogo di accoglienza, per le media art?

Un vuoto scaturito da molti pregiudizzi basati sull’idea di determinismo tecnologico che queste forme d’arte si portano dietro. Se l’accusa è sempre l’antica questione – almeno sin dai tempi della fotografia – del determinismo tecnologico, è anche vero che, soprattutto in Italia, studi approfonditi che permettessero di alleggerire tale pregiudizio non ci siano stati. A una visione più profonda di cosa siano le media art, di quale storia e quali nuovi concetti esse siano portatori, balzerebbe davanti agli occhi non tanto l’approccio deterministico, ma il modo in cui le media art siano riuscite a mette in crisi e ribaltare i principi di fondo di tale determinismo, ridefinendo continuamente il ruolo della tecnologia all’interno della produzione estetica e del rapporto che essa attiva nel momento in cui viene a contatto con il visitatore. Ridefinire, dunque, e farci vedere un altro modo di concepire il nostro quotidiano, dominato sempre più da strumenti tecnologici. Ridefinire gli ambiti è sempre qualcosa che implica atteggiamenti etici, filosofici e politici. È sempre qualcosa che implica un gioco sul limite di quegli insiemi cantoriani con i quali produciamo i nostri ambiti culturali.

Media art è infatti proprio qualcosa che viaggia fra i confini di ciò che chiamiamo arte contemporanea, cinema e audiovisivi, sound, comunicazione e sviluppo tecnologico. Insomma, sembra proprio che ancora non ci sia stato quell’atto di riconoscimento, quel sistema culturale di riqualificazione e di rivalorizzazione, che il grande storico dell’arte Cesare Brandi vedeva come atto primario dell’analisi artistica: «il che significa che fino a quando questa ricreazione o riconoscimento non avviene, l’opera d’arte è opera d’arte solo potenzialmente». Questo libro, come anche il Festival che ho il piacere di dirigere (il Media Art Festival di Roma) e i progetti con l’arte che abbiamo attivato con la Fondazione Mondo Digitale, si basano proprio su tali questioni: iniziare e cercare di costruire un luogo, uno spazio, per le media art. Far in modo che si riesca a investire in centri di ricerca e produzioni, piani di preservazione delle opere, nuovi festival, musei dedicati. Come afferma un luminare come Sean Cubitt nella prefazione al libro: ”Tutte le arti sono media, ma l’espressione ”media art” è giunta ad avere un significato speciale. […] Oggi le media art non solo affrontano i grandi temi del nostro tempo. Esse risiedono negli stessi media di cui parlano. […] Catricalà ci conduce verso questi strani incontri, introducendoci alle ricche eredità e al futuro delle più importanti arti degli ultimi cento anni. Ponendo una questione capitale: come possiamo diventare umani nella nuova costellazione in cui ora stiamo arrivando?”