Hogre, Favelli e Runfola, l’arte che segna

Bologna

Andy Warhol e Hogre da un lato, Flavio Favelli e Aldo Runfola dall’altro, Isabella Seragnoli, Sandra ed Eugenio Sidoli per finire. Sono questi i nomi che mi sono rimasti in testa dopo il mio week end emiliano. Interrogandomi e interrogato su quale fosse il lascito di questa edizione di Artefiera non ho saputo trovare altro che elencare le doti dei suddetti. Ma cosa unisce tutti questi signori? La testa. Hanno fatto e fanno sempre come gli pare, in assoluta e presuntuosa autonomia. E quello che loro hanno fatto a me piace molto, perché per me contemporaneo significa innovazione, originalità, qualità, stupore e appunto autonomia. Ma andiamo con ordine. La premessa è che questa edizione della kermesse bolognese non mi ha entusiasmato: un’offerta creativa nel complesso più povera, poche le vere innovazioni. Intendiamoci la qualità c’era. I grandi italiani del moderno e del contemporaneo erano tutti li, uno dopo l’altro. Ma nulla che mi abbia veramente emozionato se non questo duo composto da Favelli e Runfola. Ha fatto bene il direttore della mostra a dare lo spazio più prestigioso a Flavio. La sua ricerca sulla memoria, sulle emozioni domestiche, sui ricordi inseguiti e riproposti in allestimenti realizzati attraverso l’assemblaggio di materiali di uso consueto emoziona. Entrare nelle sue stanze è come ascoltare una musica che ti riporta dove non andavi da tempo e che ti fa vedere le cose con gli occhi della consapevolezza. Stai lì e capisci che l’esperienza è l’unica conseguenza positiva della caducità di ogni esistenza.

E poi Runfola. Lo considero un vero precursore, un talento non ancora del tutto compreso e valorizzato. Dopo gli antichi romani e molto prima di Facebook è stato lui a riproporre il pollice in alto come gesto di pubblica approvazione. Il suo mi piace non mi piace come cifra distintiva della società dei consumi e delle apparenze rimane un’intuizione felice e anticipatoria. Cosi come le sue opere politiche. La mano michelangiolesca di Alessandra intenta a deporre la scheda nell’urna hanno anticipato di decenni il tema della fine della democrazia. Ma poi niente più. Girando per le calle della fiera non ho trovato altro che la solita compagnia di giro. E allora le emozioni sono andato a cercarmele altrove. Per prima cosa ho fatto un salto al Mast di Isabella Seragnoli, uno dei miei musei preferiti in assoluto. E ho trovato quello che cercavo. Thomas Struth è un fotografo raffinato che va dove ci vuole portare la Seragnoli e ci va con l’occhio del neurochirurgo. La sua lente entra in macchine misteriose e sconosciute con una profondità rara. Giri li dentro e capisci come il mondo sia cambiato, come la mente umana sia stata capace di creare l’inimmaginabile. Intendiamoci, è un museo raffinato ma difficile, che in molti stentano a comprendere. Ma è proprio quello che mi piace. Soltanto una mente autonoma, caparbia e battagliera qual è quella della timida Isabella poteva concepire uno spazio così. I superficiali possono pensare che sia stato il capriccio di una ereditiera assai ricca. Certo i soldi hanno aiutato, ma l’intuizione è tutta sua, così come il coraggio di portare a termine e di gestire con successo questo progetto. Dalla periferia industriale bolognese mi sono poi spostato a Reggio Emilia per gustarmi Propaganda la mostra voluta da altri autonomisti del contemporaneo, vale a dire i Sidoli. Nella vita di tutti i giorni fanno mestieri di successo ma quando smontano rimangono protagonisti e vittime della loro passione, in primo luogo della Street Art. Ma naturalmente non fanno come tutti gli appassionati o i collezionisti.

Eugenio e Sandra sono loro stessi un pezzo del contemporaneo italiano e segnatamente dell’arte di strada. Con le loro committenze illuminate, la loro attenzione intellettuale e personale verso i giovani talenti, segnano le dinamiche di questo genere. Spingono, provocano, producono, valorizzano. La loro galleria di Reggio Emilia è il loro regno incantato, uno spazio di assoluta libertà dove i loro protégés imperversano come cavalli indomiti. La mostra Propaganda, che ha come protagonista il giovane e talentuosissimo Hogre, è la riprova di questa libertà. Solo grazie al mecenatismo illuminato di Eugenio e Sandra Sidoli tanti giovani street artist trovano visibilità, aiuto, conforto e soprattutto quella spinta a superarsi, ad andare sempre avanti. Il subvertising di Hogre è toccante. Questo giovane calabro polacco ha una marcia in più. La sua ironia, il suo acume, la sua creatività unite ad una buona dose di anarchia intellettuale producono una miscela fantastica. Ed è proprio il giovane Hogre che mi porta dove ho cominciato. Cioè dal mio amato Warhol. Tutti i signori di cui vi ho parlato fin qui per me partono da lui. Non negli esiti delle rispettive azioni ma nelle premesse. Un pubblicitario gay le cui prime opere furono dedicate all’omosessualità (come dimenticare Lonesome cowboys o blow job?) sconvolse l’America protestante e conservatrice alla quale faceva comprare Brillo e Ketchup con la sua arte per tutti, figlia di un concetto dirimente qual è la serialità delle opere. Con Picasso a mio giudizio Warhol ha cambiato il corso della storia e dell’umanità. Il primo ha scomposto e riaggregato l’arte aprendo l’autostrada nella quale si sono poi lanciati tutti i moderni e i contemporanei, il secondo ha reso l’arte Pop cioè popolare, ma non nel senso di famosa ma nel senso di arte per il popolo, per tutti. Non la sto a fare troppo lunga. Cito Warhol soltanto per dire che gli artisti che ho visto in questo week end mi hanno emozionato perché hanno saputo percorrere strade diverse e proporre visuali e prospettive che occhi comuni non sempre riescono a cogliere. Hogre dissacra, diverte, colpisce, entusiasma. La sua satira è più penetrante di mille saggi, il suo lavorare sulle pubblicità porta messaggi di rottura tra la gente. Marcel Proust diceva che «Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale». Appunto.