In conversazione con Bellomo

La Galleria 206 UnknowNow di Bari ospita Simone una mostra curata da Fabrizio Bellomo, artista pugliese tra i protagonisti del Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2018 e vincitore del premio speciale Inside Art al Talent Prize 2017. Un’esposizione che per caratteristiche interne offre diversi spunti di riflessione. Ne abbiamo parlato direttamente con Bellomo.

Chi è Simone?
«Simone è tante cose: un artista, un amico, un ex saldatore e sfascia carrozze, un rigattiere. E per tutte queste ragioni fra il 2012 e il 2014 si è prestato a divenire anche uno dei protagonisti principali del mio primo film L’albero di Trasmissione (2014), che narra proprio della sua famiglia e ‘utilizza’ i profondi legami che intercorrono in queste vicende familiari come metafora della discendenza e delle genealogie delle esistenze».

Dal suo punto di vista si considera un artista o cos’altro?
«Simone è un artista ed è consapevole di esserlo. Non fare parte di un sistema non vuol dire non essere consapevoli della propria indole umana. Il che è tutta un’altra storia».

Quando e come nasce l’idea della mostra in galleria?
«È una mostra, questa di Simone, che avrei voluto curare già diverso tempo fa, mentre giravo il film. Solo ora si è presentata l’occasione adatta, la galleria 206 UnknowNow di Pierluigi Bosna mi è sembrato lo spazio giusto a cui proporla. In passato ho curato diversi progetti, tra cui amarelarte un progetto d’arte pubblica nel porto di Bari co-curato nel 2011 con Bruno Barsanti; Prosecco e Pop Corn per la Galleria Giovanni Bonelli di Milano e per L’Apulia Film Commission nel 2013 e anche Cartoline dalle Puglie, una serie di progetti editoriali nel 2010».

Oggi l’artista-curatore risulta essere ancora al centro del dibattito. Qual è la tua posizione?
«Questa risposta l’ho già data 7 anni fa quando curavo amarelarte. Parlare di un doppio ruolo artista/curatore non ha molto senso, perché queste due parole sono semplici etichette. La società ha bisogno di inquadrare un essere, un nucleo di realtà all’interno di schemi che essa stessa ha dettato senza preoccuparsi di dettare, in maniera altrettanto rigida, i contenuti. Io ho il mio modo di dare forma a questo nucleo di realtà, un metodo che applico in ognuna delle mie attività: semplicemente, vivo, studio e gioco. Penso poi a Carmelo Bene che, in una discussione durante il programma Mixer cultura, provocato sul ruolo del critico dal presentatore, dice citando Oscar Wilde, e ancora prima Feuerbach: ”…l’artista è il critico, quindi il critico è l’artista…”. Traslando questo discorso a questa domanda: l’artista è il curatore e il curatore è l’artista…; i due ruoli sono in realtà identici».

È solo uno svincolo dalle etichette? O riconosci veramente una similarità tra le due pratiche?
«Non ho mai creduto alla specializzazione, alla parcellizzazione del lavoro né manuale né culturale: da quelle parti si trova l’alienazione. Lì la mia indole si troverebbe a disagio. Il lavoro a cottimo sia manuale ma anche ‘cultural-digitale’ può creare dei mostri e delle grandi forme di inumanità. Invece tutte le diverse pratiche culturali sono strade percorribili e che possono dare nuova linfa alla voglia di conoscere. Stimoli per continuare i propri studi e la propria ricerca».

Tutto giusto dal punto di vista di un artista, più difficile per un curatore. Pur operando ‘culturalmente’, il curatore ha dei recinti entro i quali deve esercitare le sue funzioni che non sono facili da scavalcare, nonostante oggi siamo arrivati a un punto molto denso di ibridazione tra le pratiche. Si tratta di uno shift generato dall’intromissione degli artisti nella pratica curatoriale, conseguenza della postmodernitá, di sconfinamenti, mescolamento e pratiche interdisciplinari.
«Enrico Ghezzi cos’era, solo un critico cinematografico? Non è giusto incasellarlo, come ai tempi non si potevano incasellare Da Vinci e Goethe. Bisogna capire che l’idea della professionalità e della specializzazione sono pensieri tutto sommato recenti. Industriali. Meccanici».

Per tornare a Simone, vengono in mente Mario Perniola e il suo libro L’arte espansa o l’esperienza di Sam Rodia e le sue Watts Towers.
«Ogni volta che si parla di Simone si finisce alle Watts Towers come se queste fossero diventate un’icona di un certo tipo di opere. Proprio in questi incasellamenti si annida il pericolo del professionismo della gara a cottimo per chi è più bravo e bello. Se cerchi sul web, ad esempio, il sito costruttori di babele del mio amico Gabriele Mina troverai una catalogazione italiana di tutti quelli che lui chiama artisti irregolari tra cui figura anche Simone. E vedrai già solo in Italia quante di queste magnifiche modalità di esistere ed esprimersi esistono».

Perniola recupera il termine outsider, forse più giusto se si riconosce che si tratta di esperienze esterne alle dinamiche dell’arte contemporanea, almeno all’inizio. Oggi Simone entra nei radar grazie al tuo intervento e alla tua mediazione. Questa è la percezione. Non è in discussione Simone, ma la ricezione del suo operato.
«Quel tipo di sistema non è più riconosciuto. Simone è consapevole di essere un artista al di là dei soldi che percepisce. Oggi la maggior parte degli artisti – almeno dei giovani italiani under 40 – che invece sono parte del sistema fanno davvero soldi con quello che fanno? La maggior parte campicchia (alla stregua di come campicchia Simone), il più delle volte anche grazie a case di proprietà ereditate a monte che permettono una certa sicurezza. Nulla di male, eh… Ma è così».

Le opere di Simone sono in vendita?
«Sì, ne abbiamo già vendute due alla vernice».

È la prima mostra di Simone in galleria?
«Sì».

Qual è il suo modo di procedere?
«Totalmente istintuale e relativo alle sue competenze e ai materiali che lo circondano. Simone è un ex saldatore ma anche un visionario. Alcune opere possiedono anche delle trascendenze concettuali (inconsapevoli fino a un certo punto)».

Cosa hai visto in Simone? Cosa lo rende artista secondo te?
«Le sue metafore realizzate con quei pezzi di ferraglia, insomma, le sue opere, come per qualsiasi altro artista.

Perniola registra la svolta fringe attraverso l’individuazione di tre fasi: Artisticità, riconoscimento di un valore artistico precedente; Artificazione, politica di promozione di pratiche marginali; Artistizzazione, decentramento dell’azione dal singolo a un sistema complesso di relazioni, “all’interno del quale qualcosa o qualcuno che è fringe (marginale), addirittura estraneo al mondo dell’arte, viene ammesso a farne parte…”. La tua operazione ha sicuramente in sè gioco disinteressato, ma finisce per adottare i medesimi meccanismi del sistema.
«L’unica altra alternativa sarebbe castrarsi, o come diceva Pasolini, il ”suicidio intellettuale”. Simone è forse proprio l’esempio anche di quel decentramento e parte di quella nuova élite a cui ambiva – di nuovo – Pasolini; una possibile nuova élite formata anche dagli ultimi, perché si è elitari – nel concetto pasoliniano – per intelligenza e sensibilità! E non per la tipologia di divano su cui si poggia il culo o per la quantità di termini che si conosce di una data lingua».

Il decentramento potrebbe essere una soluzione. Più complesso è il discorso sulla nuova élite, sinceramente. Si parla di registri linguistici che devono per forza essere diversi rispetto a quelli dell’élite considerata tradizionale, a differenza dei sistemi di produzione e di quei processi spiegati da Perniola, che devono per forza essere mutuati dal sistema, come ha ammesso lo stesso Pasolini.
«Pasolini sognava un’élite da formare secondo altri paradigmi così come Charles Babbage una retribuzione suddivisa secondo i livelli di quoziente intellettivo degli individui. La nostra società premia furbizia e meschinità piuttosto che intelligenza e sensibilità. Ma lo sapevamo già, no?».

Info: unknownow.it/events/simone

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