Giulia Cenci

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo la versione integrale di un articolo pubblicato sul numero 111

Nell’idea di distruzione di Giulia Cenci c’è qualcosa di profondamente costruttivo. Un ciclo naturale nel quale a ogni azione che altera un determinato sistema corrisponde un gesto di reazione che interviene a ricomporne i pezzi, a riempire i vuoti lasciati. Per l’artista, il primo modo per farlo è stato attraverso la materia. «Penso all’origine della scultura – spiega Cenci – Plinio scrive che il primo ritratto scolpito rappresenta un giovane in partenza, non si sa per dove. Un vasaio trova sua figlia a piangere di fronte all’ombra del ragazzo disegnata sul muro. Così prende l’argilla e la riempie, fisicamente». Anche in un mondo virtuale, la materia resta lo strumento in grado di dare forma tangibile all’immateriale, di fissare il passaggio del tempo. Le installazioni di Cenci sono paesaggi incidentati, qualcosa è accaduto e qualcosa potrebbe ancora accadere ma per un istante tutto sembra immobile, sospeso, indefinito: «In quel momento sei trasportato in una dimensione diversa, diciamo di osservazione. Ma è un tempo molto incerto, possibilista. Mi interessa il processo, la trasformazione, ma ancor più provare a fermare delle cose che sembrano vanificarsi, rendere visibile l’invisibile con un lavoro molto fisico, molto umano».

Però nelle tue installazioni non sembra esserci traccia di umanità.
«Me lo sento dire spesso, in realtà i miei lavori sono sporchi, pesanti, contengono marmo, plastica, legno, argilla e sono il risultato di una lunga elaborazione. Per la mostra al De Ateliers di Amsterdam, per esempio, ho lavorato su quelli che chiamo gruppi, due installazioni molto diverse, una a terra e una a muro, a loro volta composte da varie sculture. Tra queste ci sono anche i Siliconi, lavori con un processo complesso iniziato due anni fa, forme in gomma che dentro contengono dei frammenti in cenere d’osso».

Un po’ scheletri e un po’ involucri.
«Sì, in un primo momento faccio una forma, a volte è il calco diretto di un oggetto, oppure una forma che realizzo impacchettando pezzi di cose, sezionandoli, o formandoli io stessa con pezzi di argilla. Quando ho questa forma, ne faccio una scultura vuota, fragilissima, molto fina e rigida che inizio a ricoprire con strati e strati di silicone trasparente a cui aggiungo degli inerti minerali, grafite, polvere di vulcano oppure bitume in polvere. Di solito ripeto il processo per due tre mesi, fino a che lo spessore non tiene, poi rompo la scultura interna, che spesso si è già spaccata o si rompe dopo durante il trasporto. È come se ci fosse un involucro esterno e uno scheletro interno, che prima era rigido e adesso è frammentato, non serve più a niente. I frammenti a questo punto non si possono più togliere dall’involucro, le sculture sono forme chiuse».

Come lo spazio che le racchiude. Sembra un sistema chiuso, definito da uno schema preciso.
«L’installazione è il risultato di come gli oggetti si dispongono nel mio studio quando lavoro, a seconda dei miei movimenti, lo spazio invece è come un paesaggio che mi dà delle regole da cui partire. Alla base c’è un disegno installativo: ad esempio per La terra bassa alla galleria SpazioA di Pistoia non volevo che la mostra fosse più alta di un tot di centimetri da terra. Lo stesso per gli oggetti, che dovevano essere scolpiti fino a quel punto, formati fino a quel punto. Non volevo che superassero questa specie di orizzonte virtuale. Al De Ateliers invece volevo una linea di confine a muro dalla quale le sculture partissero per svilupparsi verso il basso. Questo limite è anche un modo per definire lo spazio della materia. Mi interessa che in quei venti centimetri le sculture diano forma a un pezzo di materia, nei venti centimetri dopo no e poi di nuovo sì».

Ancora una riflessione sui vuoti e i pieni.
«Ma questo in fondo è alla base della scultura, no?».

E cosa c’entra in tutto questo la distruzione?
«In qualche modo nel momento in cui prendo dell’argilla per fare una scultura, sto distruggendo la cava, sto creando un vuoto. Però di fatto non vuol dire necessariamente danneggiare, è un flusso di materia che viene distrutta per creare formare qualcosa di diverso. I miei lavori finiti, per esempio, magari contengono frammenti, rimasugli di molte cose, ma alla fine sono indivisibili, tornano a essere qualcosa di unico. Creazione e distruzione sono legate».

Oggi anche di più di prima.
«Quando inizio un progetto non posso non interrogarmi sulle possibilità e disponibilità dei materiali. Ogni tempo ha avuto la sua materia e noi viviamo intorno a materiali impuri. Non me la sentirei oggi di lavorare solo con il marmo. Ogni cosa è contaminata, ma fa parte della natura. Vale anche per il telefono che ho in mano. L’involucro è di plastica, la plastica viene dal petrolio e così via. Cioè, ci sono i dinosauri nella plastica. E tutto questo processo di evoluzione che dalla necessità ha portato all’arte dall’arte alla tecnologia e così via è anche utile per capire fino a che punto il fare, più che il creare, voglia dire distruggere».

BIO

1988
Nasce il 12 luglio a Cortona

2007
Frequenta l’Accademia di Belle Arti a Bologna

2013
Inizia un master alla St.Joost Academy, Den Bosch-Breda, NL

2014
È in mostra alla galleria SpazioA di Pistoia con la mostra La terra bassa

2017
Partecipa alla terza edizione di Granpalazzo. A luglio termina la residenza al De Ateliers di Amsterdam con una mostra dei lavori realizzati in studio

Info: giuliacenci.blogspot.it