Politica senza retorica

Dal numero 113 di Inside Art, pubblichiamo l’intervista con Adrian Paci, nell’ambito del Focus ”Arte e Politica nel XXI secolo”. 

Adrian Paci non avrebbe bisogno di presentazioni: è nei principali musei di tutto il mondo con opere che sono lo specchio di un vissuto personale e collettivo, quello di un artista albanese, che ha attraversato l’esperienza della dittatura e i successivi cambiamenti politici che hanno investito l’Europa dagli anni Novanta. Il suo rapporto con l’Italia è cominciato con una borsa di studio vinta nel 1992 per studiare arte e liturgia a Milano e, ad oggi, l’Italia è la sua patria adottiva. Il suo lavoro è un continuo rivivere attraverso suggestioni poetiche e personali la storia politica recente. Al vaglio di questo sguardo passano tematiche come la migrazione, il senso di perdita, la mobilità ma soprattutto il recupero di una dimensione intima, quella insidiata dalla dittatura e che l’artista ripercorre al fine di trasformarla in un’esperienza condivisa. Proprio il ruolo delle immagini è alla base di questa ricerca, un susseguirsi di visioni personali diventano elementi per ristabilire una coscienza collettiva. Per far questo Paci attinge alla classicità, suo primo riferimento artistico, per mettere in scena le sue personali elegie del quotidiano: fotografie, installazioni e video in cui l’uomo è alle prese con i rituali del suo tempo alla ricerca di un rinnovato incontro con l’altro.

In tante occasioni hai parlato del tuo passato, dell’esperienza della dittatura in Albania e della scoperta dell’Italia, non solo attraverso il suo passato storico artistico ma anche come prima esperienza diretta della democrazia. Cosa ha significato per te questo passaggio, come lo ricordi?
«È stato un passaggio importante, pieno di aspettative e illusioni. Sono venuto all’inizio nel 1992 come studente con una borsa di studio e poi la seconda volta nel 1997 con la famiglia e con l’intenzione di rimanere. Sono due esperienze diverse ma in tutte e due c’era un’apertura, una grande disponibilità verso una nuova avventura e nello stesso tempo una voglia di tenere stretto tutto quello che avevi di caro e di prezioso».

Il tuo lavoro spesso incontra il passato storico dell’Albania e lo fa attraverso momenti legati alla tua intimità. Quanto pensi che l’esperienza personale di un artista sia importante nell’accostarsi a tematiche che hanno una valenza, se vogliamo, politica?
«Per anni, nell’Albania comunista, avevo vissuto la dimensione politica come un’invasione del privato, come una privazione dall’intimità e dell’autenticità. La caduta del regime, con tutte le sue conseguenze, ha travolto la vita di ciascuno di noi. L’apertura verso la democrazia e l’Occidente non è stata semplicemente un cambiamento di modelli ideologici e di organizzazione dello stato ma ha causato dei grossi spostamenti sia psicologici che fisici nella vita delle persone, coinvolgendo così le loro azioni e i loro affetti. Penso che i modelli politici debbano essere continuamente messi in discussione dal corpo vitale delle donne e degli uomini non solo come massa collettiva ma partendo dal vissuto del singolo».

Ti definisci un artista politico? Credi che il rapporto tra arte e politica debba avere delle sue modalità specifiche?
«Tendo a non definirmi. Non credo a dei modelli prestabiliti e detesto le formule preconfezionate specialmente quando entrano nella bocca di tutti e si usano in modo inflazionato. Quando l’arte si sforza per mostrarsi impegnata perde qualcosa, diventa pretenziosa e si carica di una retorica che rischia una pomposità inutile. Penso che artista debba sempre capire qual è quella cosa di cui non può fare a meno. Capire questa cosa vuol dire aver individuato una mancanza, un vuoto e così la tua azione diventa in qualche modo necessaria. L’impegno politico rischia di diventare decorativo come ogni altra cosa proprio quando perde questa necessità e questa urgenza. Invece a volte un’intuizione poetica potrebbe spostare lo sguardo e aprire nuovi orizzonti per il pensiero. Offrire alle cose e al pensiero un’altra possibilità potrebbe essere un gesto politico, ma spesso questo avviene senza toni dichiarativi, in modo silenzioso ma profondo».

La tua opera forse più conosciuta, Centro di permanenza temporanea del 2007, affronta una delle tematiche più sentite della contemporaneità, quella della condizione dei migranti. Da qualche anno a questa parte questo argomento ha interessato artisti e media con opinioni anche molto contrastanti, sono passati dieci anni. A che punto siamo?
«L’ho detto spesso che l’immigrazione non è stato un tema o un argomento per il mio lavoro, ma un’esperienza che mi ha regalato storie e immagini. Quando un’esperienza ti regala un’immagine è una grande cosa, non succede sempre ed è una specie di grazia. Faccio fatica ad affrontare l’immigrazione come un argomento da trattare. Può darsi che sia un mio problema, ma credo che l’arte debba stare attenta alla tentazione di dover per forza e sempre esprimersi. A volte può stare semplicemente in ascolto e mostrare sensibilità e rispetto piuttosto che offrire soluzioni pretenziose. Noi tentiamo di confondere spesso il silenzio con l’indifferenza ma a volte ha a che fare di più con il rispetto».

Il tuo rapporto con il nostro paese è segnato da un felice incontro con una grande personalità della cultura Italiana: Pier Paolo Pasolini. L’impegno di questo autore nei confronti della politica è noto. Qual è l’eredità principale che Pasolini ti ha lasciato?
«Un connubio felice tra la freschezza dello sguardo sul presente e la memoria colta dal passato. Quel modo di essere uomo, che lui ha spesso enfatizzato, coincide con quel modo di apparire, e con la sua bellezza mettendo insieme la dimensione politica ed estetica, elevando lo sguardo a una specie di azione politica sul mondo. Pasolini è stato sicuramente un grande scrittore e un intellettuale impegnato, ma oltre la parola credo che lui si sia espresso anche attraverso lo sguardo. Questo sguardo è presente in Accattone e Mamma Roma ma anche nel Vangelo secondo Matteo e nel Decameron. Questo sguardo carico di affetto per il presente ma anche di memoria pittorica ho voluto condividerlo. L’eredità di Pasolini è poi molto più complessa e stratificata, ma ho voluto soffermarmi e rendere omaggio al suo sguardo». 

Domanda un po’ “scomoda”. Come sai in Italia è un momento politicamente intenso.
«Non sono ancora cittadino italiano e non posso votare, ma vedo i miei famigliari che tra poco si devono recare alle urne e ho l’impressione che siano costretti a scegliere il “meno peggio”. Questa volta sembra che “ Il peggio stia scendendo dalle stelle”».

Se venissi eletto tu, quale sarebbe la prima azione che faresti per migliorare le cose?
«Darei le dimissioni…».

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