Clumsy and Milky

Secondo appuntamento per la nuova sede di White Noise Gallery, che riconferma la scelta di una proposta di carattere installativo, ospitando la prima personale romana di Michele Gabriele. Un progetto di rottura quello della galleria, con lavori inconsueti, forti, anche se non sempre di facile comprensione. Per realizzare la sua personale Clumsy and Milky: encoding the last quarter of a pose, curata dal progetto Something Must Break, Michele Gabriele è partito interrogandosi su quale sia il destino delle opere nel momento in cui si conclude l’esposizione. Oggi qual è la sorte comunemente riservata alla memoria di una mostra? Secondo Gabriele spesso l’unica rimanenza è una fotografia che galleggia nel web. Da questa considerazione si muove l’ultima ricerca dell’artista milanese: Gabriele si rende conto che una volta esposta, l’opera continua a vivere nel mondo online attraverso l’interpretazione di chi la ritrae. L’angolatura scelta, il dettaglio, la luce, tutti elementi variabili in base alla sensibilità di chi scatta la foto, con il rischio che il senso della ricerca ne esca snaturato. Il problema maggiore secondo l’artista è che queste interpretazioni ”scattate” siano più durature rispetto alle impressioni generate dal contatto con l’opera ”dal vivo”, e che finiscano, quindi, per vincere anche sulla memoria di chi all’esposizione c’è stato veramente, perché la mostra finisce ma Instagram continua. Gabriele decide di fare un tentativo per controllare questo processo e propone opere che siano già in posa, concepite per apparire sempre di tre quarti, lavori che nascono con la consapevolezza che saranno completi solo dopo aver assolto al compito di mostrarsi al meglio dinnanzi all’obbiettivo dello spettatore. Così nella ricerca di un luogo il più asettico possibile, anche la galleria non è più uno spazio attraverso il quale costruire un percorso espositivo, ma diventa mera scenografia.

Ma cosa comunica un’opera che deve essere essa stessa l’oggetto della comunicazione? Nell’era dell’immagine, in cui siamo bombardati da simboli e fotografie, in cui non c’è più spazio per la sequenzialità ma solo per la simultaneità, i lavori di Michele non vogliono raccontare una storia. Le opere perdono il collegamento con il passato e il presente, appaiono come un’accozzaglia di materiali e oggetti, alcuni riconducibili al quotidiano, ma quasi fastidiosamente aggrappati gli uni agli altri, tanto che non è possibile prenderli in considerazione singolarmente. Sono parte di un tutto, una scultura che finge indifferenza, come provenisse da un futuro distopico. Un ready made creato dalla natura, come una valanga, che scivolando da un pendio, raccoglie quello che trova sulla sua strada. In realtà la tecnica di Michele Gabriele è tutt’altro che improvvisata, gli oggetti che lui accorpa sono legati assieme dal silicone, materiale non facile da plasmare e che lui studia meticolosamente, facendo sì che le sue sculture mostrino sempre, da qualsiasi angolazione le si guardi, uno profilo, uno spigolo, quel tre quarti tanto ricercato dagli amanti del selfie.

L’artista descrive le sue creature come ”teneramente goffe”, capaci di generare empatia con l’osservatore grazie alla loro postura sgraziata. Ci sono però degli elementi di pericolo, decisamente respingenti: spuntano grandi lame, cavi aggrovigliati che imitano bombe caserecce e si vive un’instabilità generale creata dalla continua ricerca dello spigolo. L’analisi di Michele Gabriele è sicuramente attuale, la comunicazione dell’arte nell’era digitale è un problema e al quale bisogna dedicare attenzione. L’artista ha trovato la sua risposta, ha deciso di assecondare chi vive osservando il mondo da uno schermo, chi compra i biglietti per un concerto e lo guarda attraverso il cellulare. Quello trovato da Gabriele è un modo per rispondere a questa necessità contemporanea di ritrarre prima che guardare, un modo per controllare le sue opere anche dopo averle lasciate, un tentativo di suggerire l’interpretazione allo spettatore. Questa motivazione alla base della ricerca dell’artista non emerge così chiaramente osservando le opere, ma probabilmente non deve essere così, a Gabriele infatti interessa solo il risultato: obbligare lo spettatore ad assumere inconsciamente il punto di vista che l’artista gli suggerisce. C’è forse solo un rischio in quest’operazione: quello di dimenticarsi di coloro che le opere le guardano davvero, faccia a faccia, coloro che non cerca un’inquadratura a tutti i costi, quelli che una storia se la vogliono fare raccontare. Info: whitenoisegallery.it

 

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