L’occhio di Eugene Smith

”Saprebbero queste fotografie, lette senza parole, saprebbero suscitare il ricordo della vostra esperienza di vita a Pittsburgh, corroborarla? Oppure vi sembrerebbe di osservare un’esperienza estranea – quasi avvenisse da un altro pianeta, come vi è capitato, a volte, di reagire nel vedere grandi riviste che presentavano fatti della vostra città? Ditemi – desidero sapere, devo sapere – ho forse imposto con la forza tanta individualità in questa dichiarazione, o poesia, di per sé estremamente individuale, al punto di perdere tantissime altre individualità, in quello che in fondo dovrà rivelarsi uno sforzo di comunicare un distillato della mia esperienza di questa città?” (W.E. Smith a Fran Erzen e Leon Miller)

È probabilmente in queste parole di W. Eugene Smith (Wichita, Kansas – 1918), una delle chiavi di lettura del suo lavoro, dai suoi interrogativi emerge quella tensione che ha tormentato la sua carriera di artista. Una continua ricerca non tanto di quell’obiettività che è caposaldo arrugginito del fotogiornalismo puro – nonostante Smith sia annoverato tra i pionieri del genere – ma piuttosto di autenticità, attraverso una pratica fotografica che è sempre più estroflessione tecnica di una funzione quasi biologica, un mezzo espressivo che è congegno indispensabile di interpretazione, e non di restituzione, della realtà, emblema di un patto drammatico tra arte e vita.

Una ricerca di una verità che ”non era palese. Una verità che aspettava di essere rivelata da lui e da lui solo”(John Berger). Come ha scritto Christian Caujolle su Internazionale: “Nessuna immagine fotografica può pretendere di sostituirsi alla realtà o restituirla integralmente. La messa in scena, la posa, la serie documentaria e le sue ripetizioni sono tutte modalità perfettamente accettabili. Quasi tutte le icone di W. Eugene Smith, da Minamata al Villaggio spagnolo, sono immagini preparate e rese ancora più drammatiche dagli ingrandimenti. Tuttavia, rimangono dei momenti molto intensi della storia del fotogiornalismo, del photo essay, del racconto fotografico”. In questo senso, la fotografia di Smith e il suo modo di intenderla espandono la questione e forniscono le coordinate, rigorosamente in bianco e nero, per rintracciare un ulteriore spunto di riflessione su un tema che risulta essere ancora oggi molto caldo: il fotogiornalismo come pratica artistica. Ne risponde con disarmante anticipo ancora Smith: ”Vorrei chiarire fin dall’inizio che non esiste alcun conflitto tra il giornalismo e la mia dimensione artistica. Un tempo esisteva, ma poi ho capito che per essere un buon giornalista dovevo essere il miglior artista possibile”.

Una dichiarazione lapidaria che tra le altre cose suggerisce la soluzione di tutta una serie di arrovellamenti che torturano finanche grandi istituzioni della fotografia contemporanea. Tutti questi temi emergono con forza all’interno della PhotoGallery del Mast di Bologna, grazie a W. Eugene Smith: Pittsburgh, ritratto di una città industriale a cura di Urs Stahel, una mostra che propone 170 stampe vintage provenienti dalla collezione del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh. Le citazioni di Smith sopra riportate rappresentano un apparato di necessario supporto a quello che il percorso espositivo restituisce di un più grande progetto mai completamente realizzato, un grande libro dedicato alla città di Pittsburgh.

Una traccia ampia di una direzione intrapresa dopo la chiusura del rapporto lavorativo con Life (1944-1957), durante il quale Smith aveva già segnato le sorti della fotografia attraverso lavori memorabili come Il medico di campagna, Il villaggio spagnolo, La levatrice, Il regno della chimica, una scelta di vita che meglio si confaceva al suo carattere difficile, ai suoi tempi lunghi e alla sua necessità di solitudine e autonomia. La mostra di Bologna aggiunge un tassello necessario alla lettura della parabola artistica di Smith, ”un progetto che era un’impresa di proporzioni non inferiori a quelle dell’opera di una vita intera”, il racconto della posizione assunta da Smith di fronte alla più famosa città industriale del primo Novecento, alle sue sfumature, ai suoi strati e alle sue tonalità umane e sociali, dal fiume Monongahela alle acciaierie fumanti, dagli operai al lavoro a quelli in sciopero, dai consiglieri comunali ai frequentatori delle biblioteche e ai bambini della strada. Una poesia scritta con la luce su scale modali sfaccettate tipiche di quel jazz suonato sulla Avenue of the Americas, costante compagno di vita nella sua ultima permanenza newyorchese.

Fino al 16 settembre; Mast, via Speranza 42, Bologna; info: www.mast.org