A che serve essere umani?

Roma

«In questi ultimi due giorni mi sono analizzato attentamente” disse il robot “e i risultati delle mie riflessioni sono molto interessanti. Ho cominciato dall’unica ipotesi certa che mi sono sentito in grado di formulare. Io esisto perché penso…». Era il 1941 quando Isaac Asimov, su basi cartesiane, scriveva queste frasi formulate da un robot, personaggio del racconto Reason . Anni, questi, di sviluppo di alcuni ambiti fondamentali per la nostra attualità, quali l’intelligenza artificiale, la robotica, la genetica, la medicina chirurgica. Ambiti che possono sembrare in apparenza lontani ma che nascondono una base comune: la messa in discussione del nostro concetto di ”specie umana”, la riformulazione di principi fondamentali sui quali abbiamo basato la nostra idea di umanità.

Fra macchine pensanti, protesi tecnologiche, modificazioni, il nostro immaginario sembra immerso in scenari di ampliamento tecnologico delle nostre abilità e delle nostre capacità intellettuali, di modificazione genetica: scenari che hanno aiutato a pensare l’uomo sempre più come “Deus”, per usare una formula di un recente libro del filosofo isrealiano Harari. Le tendenze che oggi caratterizzano le teorie sulle possibili mutevolezze dell’uomo sembrano andare in due direzioni diverse. Da una parte le teorie che vedono nello sviluppo tecnologico un aumento delle capacità del corpo per una nuova idea di umanità, dalle quali sono scaturite, dagli anni Ottanta a oggi, termini quali cyborg, ”postorganico”, transumanesimo. Dall’altra, invece, una tendenza che si è andata specificando negli ultimi anni e che cerca una nuova umanità non tanto nell’aggiunta ma nel depotenziamento, nello sviluppo di nuove parti sensibili del nostro essere prerazionali: questa seconda tendenza ingloba concetti quali ”animalità” o postumano . Entrambe le direzioni presagiscono un cambiamento nella natura umana ma da due punti di vista diversi.

Potenziamenti 

Il filone nato negli anni Ottanta prende le mosse da una mancanza, un difetto. Con lo sviluppo di tecnologie sempre più complesse, il corpo biologico risulta mancante, difettevole, non più in grado di affrontare le grandi sfide del XXI secolo. Un difetto che può essere eliminato grazie all’aumento tecnologico dell’organismo, che da ”organico” si fa sempre più ”postorganico”. Da questo punto di vista, il postorganico è una nuova visione del corpo come organismo insufficiente all’avanzamento tecnologico che, per poter essere tale, ha bisogno di un’ibridazione con la tecnologia. L’artista Stelarc dichiara, «è tempo di domandarsi se un corpo bipede, che respira, dotato di visione binoculare e con un cervello di 1400 cc costituisca una forma biologica adeguata. Non può far fronte alla quantità, alla complessità e alla qualità dell’informazione che ha accumulato; è intimidito dalla precisione, dalla velocità e dalla potenza della tecnologia ed è biologicamente male equipaggiato per affrontare il suo nuovo ambiente extraterrestre».

Sono affermazioni, queste, che sono servite a pensare diversamente la nostra condizione esistenziale in un’epoca di forte sviluppo tecnologico. Teorie che hanno aiutato a capire, o a interpretare differentemente, molte pratiche artistiche pioneristiche, quali alcune presenti anche in questa mostra. Tali teorie, di estremo interesse, nascondono tuttavia un atteggiamento deterministico, nel quale il corpo mancante è visto soprattutto come elemento di calcolo. La necessità di potenziamento si indirizza soprattutto al potenziamento del soggetto singolo, alla creazione di un “super-ego”: alla perpetuazione di una visione antropocentrica del cosmo.

È questa anche la prospettiva deterministica aperta dal transumanesimo proprio negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso e che ancora oggi impera in molti settori accademici e non. Una prospettiva basata totalmente, o quasi, su una idea di progresso all’insegna dell’idea di ”miglioramento tecnologico”. L’uomo così è pensato nel senso di una tavola di informazioni alla quale aggiungere o togliere dati. A ben guardare, una nuova rilettura di questa visione può partire proprio dagli artisti selezionati nella sezione italiana di questa mostra, il cui principio di selezione si è basato soprattutto sul tentativo di dare uno sguardo nuovo, più contemporaneo, a questi fenomeni. Se si guardano i lavori di Donato Piccolo, qui esposti, vediamo un ribaltamento dell’idea di una tecnologia proiettata solamente all’aumento di prestazioni del corpo umano, divenendo uno strumento di indagine e di conoscenza che accompagna l’uomo nella sua vita. È ciò che vediamo in Sebastiano, una scultura rappresentata da un uomo piegato in camice bianco sulla cui schiena dei piccoli bracci robotici disegnano. L’uomo accoglie i robot permettendo ad essi, come a dei bimbi, di giocare sulla sua schiena, disegnare forme artificiali gestite da algoritmi. L’espressione dell’uomo – un manichino – è serena esattamente come quella dell’altra opera di Piccolo qui esposta, Leonardo che sogna le nuvole: un volto rivolto verso l’alto, ancorato e manovrato da una struttura in tubi, dalla cui bocca vengono create artificialmente delle piccole nuvole. La tecnologia è il motore per la creazione di una nuova modalità poetica: come possibilità immaginifica di nuovi mondi.

All’interno di questo gioco di metamorfosi troviamo anche le nostre identità, indagate nelle opere di Paolo Cirio e degli AOS.
In Paolo Cirio il ruolo dell’identità diviene un atto politico con l’opera Obscurity, un’opera composta da oltre quindici milioni di foto segnaletiche di persone arrestate negli Stati Uniti. L’artista ha oscurato il casellario giudiziario di sei siti web di foto segnaletiche clonandoli, confondendo le loro immagini e mescolando i loro dati e aprendo in questo modo delle importanti riflessioni sul ruolo delle nostre identità e della nostra privacy nel nuovo ambiente informatico. Nuove identità stanno nascendo fuori dai contesti finora conosciuti. Confini che si sfaldano inglobando soggettività informatiche, indagate nell’opera Ghostwriter di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico (AOS). Soggettività che vengono qui conosciute attraverso una nuova forma narrativa autobiografica composta di algoritmi, i quali raccolgono, classificano e organizzano continuamente tutte le informazioni relative alla nostra vita. Come affermano i due artisti: questi algoritmi sono i Ghost Writers delle nostre autobiografie.

Depotenziamenti

Il secondo filone qui trattato ha il suo fulcro non tanto nel ribaltamento dei presupposti transumanisti, ma in un depotenziamento di questi in funzione di una nuova visione del concetto di umanità; intendendo la tecnologia come forma di conoscenza delle parti più profonde del corpo, come spinta al raggiungimento di una nuova umanità fuori dai potenziamenti antropocentrici sopramenzionati. Tale tendenza è stata spesso definita con il concetto di ”animalità”. Andare oltre l’Io, il Soggetto antropocentrico, nell’idea di un ”divenire animale” vuol dire aprire «possibilità vitali del tutto impensate, commistioni che travalicano i confini corporei, formare flussi in cui non ha più senso distinguere chi agisce e chi subisce, chi è soggetto e chi è oggetto, chi è umano e chi non lo è. Il divenire animale è pertanto un doppio processo, di ”deterritorializzazione”, che è il processo che apre le frontiere, confonde i territori appunto, e di ”territorializzazione”, che quello in cui nascono nuovi territori, nuove aggregazioni, nuovi flussi». 

Andare oltre il nostro corpo nel divenire animale non è più il potenziamento del singolo corpo, ma pensare la corporeità come flusso continuo presoggettivo nel quale il corpo diventa molteplice e si determina nelle continue relazioni fra corpi: è il divenire orchidea dell’ape e il divenire ape dell’orchidea nel momento in cui essa si poggia sopra. Corpi basati solo sulla loro potenzialità: possibilità di essere una e tutte le forme. Una nuova idea di postumano basato sul depotenziamento del soggetto, nel farci vedere i nostri corpi come corpi presoggettivi, prerazionali, preIo, che vivono e sopravvivono nel loro turbinio in un spazio atemporale. Come nell’opera dei None Collective, nella quale lo spettatore ha la possibilità di guardare all’interno di una installazione a forma di piramide che calcola in tempo reale la quantità di dati trasferiti nello spazio espositivo. I dati vengono poi rappresentati, all’interno dell’installazione, attraverso delle lampade, le quali, grazie a un gioco di specchi, amplificano e moltiplicano la visione dello spettatore. Guardando internamente, il visitatore viene catapultato all’interno di un nuovo mondo, nel quale il potenziamento visionario non corrisponde con un’azione potenziata ma con una nuova emotività fascinatoria e prerazionale, nel quale il soggetto singolo si sfalda collegandosi in tempo reale con l’ambiente espositivo.

Un rapporto quello tra uomo e macchina che Pugliese caratterizza mostrando le capacità immaginifiche dell’effetto Larsen (il feedback). Il rapporto tra due bracci meccanici è gestito dall’effetto Larsen in un continuo rincorrersi e nella ricerca di un equilibrio impossibile. I movimenti dei bracci creano una narrativa fra i robot molto simile a una storia d’amore. Diveniamo passivi spettatori di un processo emotivo naturale creato da bracci meccanici. Una nuova prospettiva sembrano aprire queste opere: quella di ritrovare una nostra nuova condizione esistenziale non nell’aggiunta, nel potenziamento deterministico della tecnologia applicata al corpo o nel potenziamento della macchina, nella creazione e nello sviluppo di un Io all’ennesima potenza. Ma piuttosto nel depotenziamento, nello scambio reciproco: non nel potenziamento ma nella conoscenza di noi stessi, dei nostri strati più profondi del sentire.

”Io penso quindi sono” dice il robot di Asimov citato all’inizio di questo testo. Stabilito ciò, occorre capire dove ci porterà questa affermazione. Forse possiamo fermarci un attimo e cercare di vedere questi cambiamenti come un’occasione importante per riflettere sul nostro futuro. Gli artisti qui selezionati vogliono fare proprio questo, farci riflettere e porci, ancora una volta, una fondamentale domanda. Come nel racconto di Chabot, Il robot filosofo, quando il robot, una intelligenza artificiale, dialoga con il filosofo umano Barnabooth e gli chiede:

«a che serve essere umano? Barnabooth sorrise ”A coltivare il mistero di esistere. A ridurre la violenza. A sperimentare nuove forme di gioia. E lei, ha un’idea?”. ”Sono desolato, non ne ho. È lei il filosofo con trent’anni di esperienza. Non invertiamo i ruoli”» .