Dal cartaceo, David Lascaris

Un estratto da Inside Art#113, appena uscito; in occasione della mostra Uπερουράνιος (Iperuranio) di David Lascaris nel nostro spazio Fondamenta che inaugura il 15 marzo alle 19.00 e prosegue fino al 29 dello stesso mese.

 Le sue opere creano stupore. Si trasformano, si evolvono, sembrano muoversi in un gioco di trasparenze, luci e colori. Tutto diventa immateriale, effimero e indefinito. Non a caso, uno degli artisti a cui si ispira maggiormente David Lascaris è Bill Viola, come lui ossessionato dal mondo acquatico e simbolico. Giovane architetto, fotografo, artista visionario ed eclettico, esordisce ufficialmente a marzo con la sua prima esposizione personale dal titolo Uπερουράνιος (Iperuranio), alla galleria Fondamenta di Roma. La sua ricerca parte dal concetto di spazio, come luogo fisico ed esistenziale e si sviluppa attraverso l’utilizzo di diversi media.

Dall’architettura all’arte. Come ti sei avvicinato alla fotografia e all’uso di materiali diversi e media sensoriali nella tua pratica?
«La fotografia per me è un modo per esplorare l’oceano inconscio di cui parla il cileno Alejandro Jodorowsky nelle sue opere. Per anni, da bambino, ho dipinto e ho sempre pensato che fosse un modo per dare forma a un universo immaginario, ma quando da adulto mi sono avvicinato alla fotografia ho scoperto qualcosa di ancora più profondo. Nella mia esperienza, la pittura mette in moto un processo razionale, prevede una rielaborazione della realtà a livello conscio. La fotografia, invece, si compone di due momenti. Il primo, quello dello scatto, istintivo. Il secondo, quello del riconoscimento conscio nel quale, riguardando uno scatto, mi rendo conto del senso di quell’istinto. Alla fotografia tuttavia mi sono avvicinato in maniera diversa da come la utilizzo adesso. Il primo progetto fotografico era completamente ragionato prima dello scatto. Questo progetto, realizzato in Cina nel 2012 a completamento di un lavoro architettonico esposto quell’anno al Padiglione Hutopolis alla Beijing Design Week, si basava sul binomio eterno/effimero e consisteva nel realizzare immagini a lunga esposizione, in cui l’elemento umano si dissolveva in una scia di fumo all’interno di contesti urbani perfettamente statici e immobili. Poi la fotografia è diventata una passione. A ispirarmi maggiormente è stato l’americano Gregory Crewdson con i suoi scatti perfettamente immobili, in bilico sull’orlo della tragedia. Poi attraverso il lavoro di Mimmo Jodice ho capito che la fotografia poteva essere anche un mezzo per allontanarsi dalla realtà facendo emergere ambiguità e anomalie. Il passaggio dalla fotografia ad altri media, come l’immagine in movimento, è stato breve».

Hai avuto esperienze personali e artistiche in diverse parti del mondo, tra cui appunto la Cina. Cosa hai appreso dalla cultura orientale?
«A Pechino ho sperimentato la fragilità, la temporaneità e l’immaterialità. Lì tutto è istantaneo, mutevole. Ma se da un lato esiste una realtà in rapida espansione, dall’altro sopravvive a stento una realtà più autentica, all’interno degli hutong, i vicoli stretti formati dall’unione delle siheyuan, le tradizionali case a corte di Pechino. Nell’hutong l’abitare stesso è in qualche modo immateriale e l’ho sperimentato di persona. Le case sono sovraffollate, spesso senza cucina e con servizi igienici all’aperto. La linea di demarcazione fra spazio pubblico e privato è spesso trasgredita. È facile incontrare persone in pigiama o che si lavano i capelli sgocciolando sopra un tombino. Il marciapiede diventa il luogo per il pranzo e per l’incontro. Tutto trova posto sulla strada, che a sua volta acquista continui significati temporanei, collassati nello spazio, ma slittati nel tempo, dimostrazione di una città in continuo divenire. In conseguenza a questa esperienza, le mie idee sono spesso effimere, volatili, in un certo senso incerte ed è ricorrente il tema del tempo e della durata. Scelgo spesso materiali che privilegiano la trasparenza o che sono destinati a consumarsi».