Arte Fiera, parla Angela Vettese

Arte Fiera 2018 ci ha regalato molti e interessanti spunti di riflessione su fiere, arte contemporanea e pubblico, così come curiosità velate rispetto al futuro. Ne abbiamo parlato con la direttrice Angela Vettese.

Quali sono le sue impressioni e soddisfazioni sull’andamento di Arte Fiera 2018, anche rispetto all’edizione passata?
«In Fiera ho apprezzato molto il contributo di alcuni collaboratori: Amedeo Martegani ha perfezionato l’area di accesso e il bookshop Printville, cittadella del benfatto più ancora che dei libri di e sull’arte; la scelta di performance, così raffinata che verrà notata solo nel tempo, fatta da Chiara Vecchiarelli nel tentativo di capire cosa sia una galleria e come si possa intrecciare al linguaggio ibrido della performance e del workshop; Andrea Pertoldeo ha messo in piedi una sezione Photo in cui tutti i galleristi mi hanno mostrato soddisfazione anche di vendite; Clarissa Ricci, Cristina Baldacci e Camilla Salvaneschi mi hanno aiutato a mettere in piedi un convegno di vero approfondimento, anche questo destinato a venire apprezzato negli anni, dove non c’erano i soliti nomi ma i nomi grandi, quelli che veramente indagano con lavoro d’archivio e visione critica il rapporto tra fiere e mostre. Fuori fiera sono stata molto felice di come Nicolas Ballario ha condotto la sezione Polis/Artworks, cioè l’itinerario di opere in spazi chiusi e aperti della città proposti da gallerie partecipanti ad Arte Fiera e in seguito selezionati da me. Alcune installazioni, come quella di Dennis Oppenheim presso i musei di Palazzo Poggi, sono state delle vere personali. Spero che le gallerie negli anni prossimi sapranno comprendere quale opportunità Arte Fiera offre ai loro artisti. L’iniziativa meriterebbe di crescere e di essere corredata da cataloghi e singoli curatori per ciascuna presenza, concependola proprio in collaborazione con gli artisti medesimi».

Come sono state accolte le novità introdotte ad Arte Fiera da parte dei galleristi, collezionisti, artisti e visitatori?
«Il pubblico non è sempre attento e i galleristi hanno altro da fare – cercare collezionisti – per comprendere subito le novità. È più facile, a caldo, comprendere le mancanze. Le critiche non sono dunque mancate ma è naturale. A freddo ricevo molti complimenti e in ogni caso mi sembra che anche le vendite siano andate bene».

In una precedente intervista affermava di voler fare di Arte Fiera non la fiera degli italiani ma la fiera italiana. Considerata la panoramica attuale, che ruolo e posto ha la fiera nel mercato dell’arte in Italia?
«Certamente non vuole essere una piccola copia di Art Basel. Le fiere sono così tante, nel mondo, che occorre insistere sull’identità di cui si è portatori. Non voglio mostrare solo arte italiana, ma appunto la vitalità che il nostro paese ha in termini di gallerie, anche quando siano relativamente periferiche e non facciano parte del plotone delle più note e omologate al sistema internazionale. Ricordiamo sempre il caso della Continua, che ho visto nascere e con cui ho intensamente lavorato fino al Duemila. Eravamo entusiasti, ma nessuno avrebbe pensato di raggiungere quattro sedi e tre continenti a partire da un borgo toscano. Questi miracoli l’Italia li sa fare e li deve saper difendere».

Un punto di forza e uno di debolezza di Arte Fiera in confronto alle altre maggiori fiere italiane?
«Certo non è capace di coinvolgere gallerie straniere come lo fu in passato, ammesso che ciò, nel panorama attuale, sia veramente interessante. Non ha l’appoggio di una città come Torino, dove si è compreso da decenni che l’unico ambito in cui elaborare la perdita della FIAT come lutto storico è, appunto, l’investimento in ogni ambito culturale e in particolare nell’arte contemporanea. Non ha l’appoggio nemmeno di una Milano, che dopo Expo è rinata, nell’architettura così come nel morale, e che ha mostrato una capacità inedita di fare sistema tra gallerie. Bologna, che conosco ancora poco, mi sembra essere una città molto ricca ma dove prevale l’idea che ognuno debba fare per sé; soprattutto, Arte Fiera viene data per scontata, come se non corresse il pericolo di un forte ridimensionamento. Così, nonostante tutti sappiano che senza Arte Fiera non ci sarebbe sostanzialmente l’occasione per un’Art Week viva come quella che invece ho visto crescere, non la si appoggia del tutto e addirittura c’è chi ne prende le distanze».

Tra mostra e fiera: a suo parere quanto conta che una fiera abbia i connotati di una mostra e che quindi mascheri in un certo senso la sua natura commerciale?
«Non è proprio il caso di essere ipocriti: la committenza è da sempre l’anima della grande arte, e non occorre citare i papi che pagarono Raffaello e Michelangelo per comprovarlo. Tuttavia è vero che oggi una fiera si connota per la sua capacità propositiva. Come dimostra il caso Unlimited di Art Basel, o le mille declinazioni di Frieze a Londra, i galleristi ben comprendono come una fiera non la si faccia solo negli stand. È necessario fare capire al pubblico quali opere e quali mostre un artista sia in grado di creare e di sostenere, perché per quanto il mercato sia fatto di speculazione, denaro, operazioni di lobby, continuo a pensare che se l’artista “non c’è”, se il lavoro non tiene, chi acquista si troverà presto o tardi con un pugno di mosce in mano. E i collezionisti avveduti lo sanno».

I collezionisti sono disposti ad osare di più in fiera o tendono ad andare sul sicuro con artisti affermati?
«C’è chi compera per puro diletto, come si acquista una moto, sapendo che il giorno dopo ciò che si è comperato varrà di meno e nel tempo probabilmente potrà perdere completamente il suo valore. E c’è chi unisce il piacere al calcolo, cosa evidente in chi è disposto a spendere molto ma vuole qualcosa in cambio. In questo caso diventa importante che l’artista di cui si compera un’opera abbia un curriculum affidabile, sia protetto da una o meglio due o tre gallerie di riconoscibilità internazionale, sia stato oggetto di ricognizioni storiche e possa essere considerato un punto di riferimento importante anche dal punto di vista critico: ecco dove si incontrano mercato e storia dell’arte».

C’è un generale disaffezionamento da parte del pubblico, tanto giovane quanto adulto, nei confronti dell’arte contemporanea, almeno in Italia, complici la difficoltà di comprensione e un retaggio legato alla dimensione artigianale dell’opera d’arte. Secondo lei come è possibile ricucire questo iato creatosi tra opera e osservatore? Ed è importante farlo?
«Vedo piuttosto il desiderio di integrare l’arte contemporanea alle espressioni più diverse del bello, del ben fatto e del pensiero: come dimostra l’evoluzione di Frieze Master, ma in termini di scuola storiografica anche il cosiddetto “anacronismo” di cui sono portavoce studiosi pur diversi tra loro come Alexander Nagel, Giovanni Careri, Georges Didi-Hubermann, non siamo più disposti a creare una demarcazione tale per cui tra antico e moderno esisterebbe una barriera incolmabile. Un dito di san Tommaso dipinto da Caravaggio messo dentro alla piaga di Cristo può essere accostato a un taglio di Fontana dentro cui si indirizza il nostro sguardo. Non c’è mai stata, in fondo, una così ampia diffusione nel mondo di musei d’arte contemporanea e del linguaggio che proviene dal nostro Occidente, che sta colonizzando anche un Est con una propria potente tradizione. Ma non siamo più chiusi in un mondo in cui le avanguardie bastavano a se stesse. Oggi si chiede loro di dialogare con espressioni diverse, in termini sia storici che geografiche che, infine, disciplinari, dello spirito umano».

Quali sono le maggiori difficoltà che si riscontrano nell’organizzazione di una fiera simile?
«L’ansia di vendere da parte dei galleristi. Ovvio che debbano rientrare delle spese, ma hanno difficoltà a creare stand unitari e coraggiosi, simili per rigore alle mostre che pure tengono nelle loro gallerie. Non capendo che il pubblico viene disorientato dall’accrochage e che le gallerie che vendono meglio sono quelle che mostrano più sicurezza. Pensiamo alle opere grandi ed eccezionali portate da Emilio Mazzoli, dalle molte incursioni storiche di Russo, anche con opere non vendibili, alla vivacissima personale di Robert Indiana portata da Contini UK. Mi perdoneranno coloro che non ho menzionato, perché comunque di gallerie con forza propositiva ce ne sono state molte, in Arte Fiera 2018».

Come si immagina la fiera del futuro? O quale format prevede nel mondo dell’arte, tenendo in considerazione anche lo sviluppo di Internet e delle tecnologie ad esso connesse?
«Non credo molto nelle vendite on line, anche se so che hanno un certo sviluppo. Il compratore vuole, per fortuna, ancora vedere di persona, capire, se possibile toccare e annusare ciò che si porta a casa. A meno che non sia di quelli che non portano a casa nulla, mandano subito in deposito la cassa in attesa di rivendere. Ma non è il caso più comune in Italia, un paese in cui nessuno ha i muri vuoti».

Si può già dire quali sono i suoi progetti espositivi futuri?
«Espositivi nessuno, non sono una curatrice. Scrivo e insegno. Sul piano pratico mi piace lavorare a progetti strutturali: reimpostare una scuola, un museo, se ci riesco una fiera…. Ma questo è certo il compito più difficile che mi sia mai data». 

Un pensiero per il 2019?
«Vedremo fin dove arrivo, sempre un piccolo passo alla volta».

 Info: www.artefiera.it/home