Marco Strappato

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un articolo pubblicato sul numero 112

Il discorso con Marco Strappato, finalista Talent Prize 2017, negli ultimi anni si è sempre mostrato in divenire; un racconto composto da tanti piccoli tasselli consequenziali, colmo di riferimenti, collegamenti e ricordi, che fanno eco alla generazione post-internet, per intenderci gli Zero cantati dagli Smashing Pumpkins, abituata a bombardamenti di immagini, suoni, informazioni. Partendo dai Mondi lontanissimi cantati da Franco Battiato, guida di alcuni lavori di Strappato degli anni passati, viene quasi automatico associare le sue opere a un viaggio in tondo, che parte dalla materia (classica, di studio, quella che aiuta la pratica a farsi forte e a smembrarsi con sicurezza) e che poi ci ritorna. Christian Caliandro, nel 2015, ha definito alcuni suoi lavori: “non propriamente delle opere, piuttosto elementi che all’interno della mostra compongono una narrazione, un mood, un’atmosfera. Spesso la sensazione è che questo lavoro provenga dal futuro”. Una descrizione che può essere perfettamente affiancata all’ultimo corpus di opere realizzate dall’artista che dopo aver indagato la pratica cinematografica, giocato con il reale e l’immaginario, si è volto, ora alla scultura. «I lavori che ho presentato prima per una personale a Palazzo Ducale di Urbino e poi alla Ex chiesetta di Polignano a Mare – racconta Strappato – sono nuclei scultorei. L’impostazione di fruizione del lavoro è nata principalmente per la struttura del Palazzo Ducale, con tutte le sue barriere architettoniche, e l’allestimento, in quell’occasione, ha visto l’introduzione di dispositivi che solitamente cerco di non usare mai, come plinti, pedane e piedistalli. La mostra si intitolava La conquista dello spazio e raccoglieva le personali di sei giovani artisti che hanno a che fare con il territorio marchigiano o zone limitrofe; mi sarebbe piaciuto dare all’esposizione il sottotitolo Storie dal mare, storie dal web perché tutto quello che sta dietro le mie sculture arriva dal web. E dal mare. In generale, il mio lavoro ha sempre avuto a che fare esplicitamente con la tecnologia che, in queste nuove opere, apparentemente sembra non esserci; in realtà, molte delle suggestioni utili per le mie composizioni le ho trovate navigando in rete. Anche il lavoro del Talent Prize, Untitled (Ground), è scultoreo pur mantenendo l’aspetto del device.

Possiamo dire che la tua base di partenza sia sempre la stessa, declinata però in modo diverso?
«Diciamo che adesso c’è più attenzione verso l’oggetto, anche un po’ per reazione al mondo effimero delle immagini. Sono molto ancorato a questa parola, effimero. Prendi ad esempio il lavoro I’ve caught Derek Jarman and Yves Klein looking at my desktop wallpaper, del 2015: le due tele sono molto grandi e profonde, quasi scultoree, ma la proiezione che va a completare il lavoro rende la composizione effimera nella sua consistenza perché cambia in base alle condizioni in cui si trova. Le mie ultime sculture, invece, sono classiche, quasi barocche, si possono vedere a 360 gradi. Si potrebbe forse dire che il mio lavoro si colloca a metà tra la progettazione davanti allo schermo e la pratica in studio». 

Non hai abbandonato però il percorso legato al paesaggio.
«Il paesaggio c’è sempre; soprattutto c’è il mare, che è per me come un grande bacino di immagini. Nelle mie creazioni convivono due differenti aspetti: il discorso sull’effimero, che ho sentito la necessità di rendere concreto, oggetto il più fisico possibile, lavorato a mano, con forza, e il discorso che vede il paesaggio stesso restituirmi gli oggetti da scolpire. Perché è stato proprio il paesaggio ha fornirmi il legno che ho poi trattato, nascosto sotto mille strati di materia. Il risultato finale è quindi una mediazione tra il mio fare fisico d’artista e il lavorìo dell’acqua, della sabbia, del vento, del sole. Forse ho scelto quel particolare tipo di legno per le sue caratteristiche naturali e perché sa mostrare, mantenendosi plastico, il susseguirsi delle sue trasformazioni nel tempo».

Sei quindi tornato all’origine: dallo studio accademico, allo schermo e, infine al lavoro con la materia vera e propria.
«Esatto. I lavori presentati a ottobre nella mostra Acts of Gods di Polignano a Mare sono parzialmente antropomorfi e non sono forme pure. I modelli ai quali mi sono ispirato arrivano per lo più dalla cronaca nera; in particolare, da una storia passata in tv, che raccontava di un ragazzo scomparso, originario del mio paese. Dal suo profilo facebook ho tratto informazioni e successivamente due immagini suggestive per le mie creazioni: la foto di un mare cupo e lo scatto di una persona che sta entrando in acqua. Per la mostra di Polignano, ho deciso di raccogliere, quindi, gli oggetti arrivati dal mare, di lavorarli e riportarli in Puglia, sulle rive del Mar Adriatico, dove è stato ritrovato il corpo esanime del giovane. Titolate per la maggior parte Untitled (bodies, bomber, bones), le sculture sono dei corpi che sembrano delle ossa e raccontano storie di bomber, termine che richiama sia un capo cult degli anni ’80, che il calciatore di punta o, ancora, il modo in cui ironicamente si chiamano tra loro gli adolescenti, ma anche l’aereo bombardiere che, appunto, sgancia le bombe. Una parola quindi, che raccoglie un ventaglio di significati, proprio come le mie sculture. Avrei voluto fare dei calchi in alluminio dei legni, ma ho deciso infine di lavorarli fino a farli diventare bianchi, come fossero degli oggetti puri e di collocarli in una chiesa, pare ancora consacrata, affacciata sul mare. Insomma, si è rischiata una deriva verso il sacro».

Tutti gli oggetti raccontano delle storie e il tuo non è solo un amore all’immagine dell’oggetto, ma anche al suo potenziale narrativo.
«I lavori appena descritti sono dei paesaggi-scultura e costituiscono solo una parte del mio corpus di opere. Un altro aspetto della mia pratica recente riprende invece il topos artistico del ritratto, al quale mi sono interessato ora per la prima volta. In questo secondo filone di lavori cerco di associare i paesaggi a delle teste. Ricordando Memorie di una testa tagliata dei CSI, le sculture Untitled, (head cut off) nascono dalla visione della testa mozzata di un manichino, arrivata dall’America, con due chiodi dentro, allora ho deciso di ricreare l’oggetto colmo di quei punti metallici, fino a trasformarlo quasi in uno strumento di tortura. Una visione non troppo lontana da quella che appare digitando in rete l’espressione head cut off e che mostra i video delle esecuzioni dell’Isis. Unendo tutti questi stimoli e, ancora una volta, traendo ispirazione dal web e dalle scoperte neuro-scientifiche, come quella del neurologo Sergio Canavero che parlano della possibilità di attuare trapianti di testa sui corpi umani, esce fuori un’immagine reale figlia del grande mare del web».

BIO
1982
Nasce a Porto San Giorgio il 28 gennaio
2011

Espone alla biennale di Praga (Prague Biennale 5), alla Fondazione Spinola Banna (TO) e alla Fondazione Bevilaqua La Masa di Venezia. Si sposta a Londra
2015
Completa la sua formazione al Royal College of Art di Londra, dove partecipa al Final Show ‘15. Espone nelle mostre Pause Patina al Camden Arts Centre e this place is really nowhere da Jupiter Woods, entrambe a Londra
2016
Espone alla XVI Quadriennale d’Arte di Roma al Palazzo delle Esposizioni e nella mostra Maybe your lens is scratched? all’Averard Hotel di Londra
2017

Il Palazzo Ducale di Urbino gli dedica la prima personale in museo in Italia, partecipa alla collettiva TU 35 EXPANDED presso il Centro per l’Arte

BOX
Marco Strappato è finalista all’edizione 2017 del Talent Prize con l’opera Untitled (Ground), 2015, una struttura multipla composta da più livelli, sia di materiali che di lettura, nella quale le sovrapposizioni di immagini creano come dice l’artista un «rapporto ambiguo tra naturale e artificiale, esotico e quotidiano». Un meccanismo preciso di rappresentazione, quello di Strappato, nel quale uno spazio ne contiene un altro fino a divenire oggetto definito. Ancora una volta, è lo schermo di un tablet, o di un pc, con i suoi desktop wallpaper democraticamente visti da tutti, a dare il La all’arista nella sua ricerca verso una sorta di evasione, indotta, dalla realtà.