Fabrizio Bellomo

Direttamente dalle nostre pagine del giornale vi proponiamo un articolo pubblicato sul numero 112.

«Vedo l’arte contemporanea come una fetta del mio discorso, non come l’intera torta». Questo breve statement di Fabrizio Bellomo è già utile a registrarne la poliedricità, una complessità che diventa il mezzo per cercare di attraversare i diversi strati della società. Secondo Bellomo il compito dell’artista deve essere quello di fare da collante tra le molteplici superfici sociali, provando a rivelarne le sfaccettature. Gli strumenti che predilige sono le installazioni nello spazio pubblico, intese come occasioni di ricerca e momenti relazionali, e il video, adoperato come dispositivo di indagine e come espediente estetico privilegiato. Ma è con la serie dei Ritratti numerici che l’artista si è aggiudicato il premio speciale Inside Art al Talent Prize 2017, un lavoro che attraverso forme sensibilmente differenti si pone come l’evoluzione ultima di un suo filone espressivo parallelo legato allo studio dell’immagine digitale, delle sue strutture e dei suoi effetti.

Come nasce il progetto Ritratti numerici?
«Ho cominciato a fare una ricerca sulla quale ha influito molto il mio periodo di permanenza a Berlino e in particolare lo studio delle vicende tedesche della Bauhaus. Si è trattata di una sorta di turba del geometrico che è sfociata in una voglia latente di provare a fare un esercizio: scrivere il codice colore di ogni singolo pixel di un’immagine digitale su un foglio a quadretti. Successivamente ho fatto una mostra da Metronom a Modena, Es geht einfach um Nummern (2015), in cui ho messo in relazione le prove a colori odierne delle macchine stampanti, che avevo cominciato a collezionare proprio a Berlino, con alcune opere originali del Bauhaus. Si è creato un gioco visivo estetizzante, molto formale. Mentre preparavo questa mostra, ho dato sfogo a quel desiderio latente, realizzando il primo ritratto numerico che è stato esposto in quell’occasione. Credo che alla base ci fosse la voglia di comportarsi come una macchina, uno scanner, una stampante o una fotocopiatrice».

Puoi raccontarci il procedimento?
«Seleziono delle immagini da Internet, il più delle volte fototessere. Controllo il codice colore di ogni singolo pixel e lo trascrivo. Controllo e trascrivo. Dal punto di vista comportamentale, anche di movimento, si tratta di un atto ripetuto meccanicamente per tantissime volte, linea per linea su un piano orizzontale, esattamente come fa una stampante. È un’azione da operaio di fabbrica. Il discorso sulla copiatura e la comprensione è senz’altro l’aspetto più interessante di questo lavoro, perché mi ha permesso di conoscere e capire molto sulla questione delle immagini digitali. Ho applicato il discorso di Luciano Canfora sul copista, considerato come “unico vero lettore del testo”, in questo caso dell’immagine digitale della quale ho potuto individuare e studiare le radici. Alla fine si tratta di fogli di carta a quadretti con dei numeri scritti a penna, un lavoro che rivela anche e soprattutto la semplicità dei materiali e del processo, forse l’aspetto che mi piace di più».

Nel tuo percorso sono rintracciabili almeno due traiettorie, una legata all’immagine digitale, un’altra che attraverso il video e le installazioni pubbliche fa i conti col sociale e l’antropologico. «Sostanzialmente sono d’accordo con quello che dici. Ma ciò che mi interessa di più sono i punti di contatto tra questi due binari, che in ogni caso riguardano l’influenza della meccanica e della tecnologia sui comportamenti umani. C’è una componente legata alla storia che porto avanti attraverso ricerche d’archivio e che si concretizza attraverso installazioni pubbliche e video, un’altra legata alla questione dell’immagine digitale. Il mio è soprattutto un discorso sul passaggio dal mondo meccanico al mondo elettro-digitale. Si tratta di un’evoluzione sulla linea progressiva del rapporto uomo-tecnologia, che un tempo era più legato a ruote dentate e ingranaggi vari, oggi al digitale. Perciò i due binari a me spesso appaiono come uno, unico».

Resiste però una netta differenza formale e procedurale tra le opere che potremmo posizionare su questi due diversi, ma infine uguali, binari.
«Assolutamente sì. E questo succede anche per una serie di logiche legate al mondo dell’arte. Una parte del lavoro viene sviluppata in modo quasi autistico, in una dimensione post-ricerca, più intima e chiusa tra quattro mura, un’altra, che probabilmente è quella in cui preferisco vivere, è legata al rapporto con contesti pubblici, e si svolge su un piano relazionale, partecipativo».

Nel flusso evolutivo del tuo percorso fotografia e video assumono sempre una centralità connessa al discorso più generale sull’immagine. In particolare il video sembra essere una tua costante operativa.
«Il video, più precisamente il cinema, è un amore. Carmelo Bene diceva, citando Pasolini, che il cinema è una malattia. Una volta che cominci a fare film è difficile smettere. Inizi a guardare anche la vita in maniera cinematografica. Anche quando lavoro a un’installazione sento molto spesso la necessità di realizzare almeno un video da portarmi a casa. Il video è l’espressione di questo mio legame forte col cinema di matrice neorealista, con uno stile a tratti documentaristico comunque intriso di tanti elementi di messa in scena. Sono sempre stato attratto dalla cronofotografia, dai cineasti e da personaggi misti. Infatti mi viene spesso imputato di fare troppe cose diverse tra di loro. Ma credo si tratti di una necessità di fare ricerca: guardare le cose ora dal punto di vista del regista, ora da quello dello scrittore, ora da quello dell’artista. È sempre un’opportunità di arricchimento».

Il ricorso alla parola, al testuale, mi sembra una cifra stilistica ricorrente nei tuoi progetti pubblici, con alcune incursioni anche nel film L’albero di trasmissione (2014). È una scelta di adattamento del tuo registro linguistico ai contesti?
«L’uso della parola nei progetti di arte pubblica è frequente, non solo da parte mia, penso per esempio a Bianco Valente. Sono convinto che nello spazio pubblico sia necessario abbassare il proprio livello di ricerca e di espressione. I lavori devono essere immediati e diretti, più semplici, e spesso qui entra in gioco la parola, il testo. È come quando pensi alla realizzazione di un film: un conto è fare un film destinato alla sala, un altro è fare un film per il circuito indipendente dalla distribuzione. Non avrei mai messo su un cartellone pubblicitario un’opera del Bauhaus con accanto una prova colore».

Attualmente la tua base è Milano ma il tuo rapporto con il Sud, con Bari, è ancora molto forte ed emerge anche in alcuni dei tuoi lavori.
«Sto pensando seriamente di tornare giù, di fare base a Bari. A un certo punto della carriera di un artista può succedere di sentire meno il bisogno di frequentare i luoghi considerati centrali dal sistema. Per fortuna in molti casi le radici territoriali riemergono e prendono il sopravvento; anche se nel mio caso le radici sono state sempre molto presenti. Credo anche che bisognerebbe iniziare a pensare di fare gruppo, di unire le forze al Sud, tra città come Bari, Napoli e Palermo. Sono convinto che questa cosa presto succederà. Ci sono e ci sono stati artisti che hanno inseguito il sistema e i suoi luoghi. Ma così facendo si rischia di incappare in un vero e proprio svilimento dell’identità».

BIO
1982
Nasce a Bari il 24 marzo
2012
È invitato dal Museo di Fotografia Contemporanea a realizzare un’installazione pubblica: Abbi cura della macchina su cui lavori è il tuo pane!. È Ideatore e curatore a Bari con Bruno Barsanti del progetto d’arte pubblica amarelarte
2014
Presenta al 55esimo Festival dei Popoli di Firenze il suo primo film, L’Albero di Trasmissione, insieme a Guglielmo Trupia, Chiara Buzzi e Umberto Volpe
2015
Viene invitato dal Museo di Fotografia di Winterthur a partecipare al progetto plat(t)form. Passa due anni fra Italia e Albania; realizza un film breve in co-regia con Nico Angiuli: E per te canterò tutta la vita
2017
Presenta il progetto Villaggio Cavatrulli alla Galleria Planar di Bari; partecipa alla Biennale dei Giovani Artisti a Tirana

Untitled (Ritratti Numerici)
Con la serie dei Ritratti numerici Fabrizio Bellomo si è aggiudicato il premio speciale Inside Art. Si tratta di un lavoro iniziato nel 2015 che fa i conti con la natura numerica delle immagini contemporanee. Infatti la base di partenza è rappresentata da ritratti a bassa risoluzione scaricati dal web. Il codice colore numerico di ogni pixel viene ricopiato a penna su un foglio di carta a quadretti con un atto ripetuto manualmente dall’artista, che da un lato veste i panni del copista medievale, dall’altra procede secondo i meccanismi propri delle macchine a stampa, agendo progressivamente su un piano orizzontale. Questa sovrapposizione procedurale fa emergere una tendenza alla misurazione del visibile che nel caso di Bellomo rappresenta una vera e propria necessità concretizzata attraverso la semplicità dei materiali adoperati, la penna e il foglio di carta a quadretti. Il risultato è una griglia numerica fitta che lascia soltanto intravedere sullo sfondo una traccia sbiadita del ritratto, un chiaro segno di quanto l’immagine in sé sia stata sopravanzata dai suoi stessi elementi strutturali.