Ada

Roma, ultimo giorno d’estate. Il cielo è sereno, tira vento e succede che per strada incontri gente con il piumino e persone in maniche corte. Faranno 20 gradi. Sette invece ne facevano a Berlino, almeno così dice il gallerista Rolando Anselmi appena tornato dalla Germania. Tornato perché a Roma il 27 settembre presenta un nuovo progetto Ada e lo fa con Carla Chiarchiaro che però ancora non è arrivata. «Carla – dice subito Anselmi – arriva fra poco». Luca De Leva è invece l’artista che lancia la nuova galleria, la prima mostra dello spazio: Ultime volontà. Carla entra. Con lei anche Luca, preso alla stazione che lui viene da Milano. Luca ha lo stesso accento di Rkomi «siamo dalla stessa zona» dice e racconta di quanto ci si rimane male quando si conoscono rapper che hai ascoltato per una vita, di come ti aspetti sempre qualcosa di diverso, che i testi sono così e loro invece così.

Ada ha per scopo dichiarato quello di promuovere la giovane arte italiana. E forse in effetti il rap ha unito e definisce una generazione, almeno quella dei così detti millennials, gli stessi più o meno presi in considerazione dalla galleria. «Se proprio dobbiamo trovare storicamente qualcosa che unisce questa generazione – dice Chiarchiarico – è un senso di precarietà, qualcosa di instabile, una specie di certezza dell’incertezza. Ci sentiamo questa responsabilità con Ada, portare avanti chi meglio rappresenta questo periodo». ”Un castello di carte. E stai in equilibrio o cadiamo a pezzi” canta infatti Rkomi.

I muri della galleria sono bianchi, intonsi. Più tardi l’artista con Anselmi a Chiarchiaro comincerà ad allestire la mostra inaugurale. Lo spazio è in realtà quello della sede romana della galleria di Anselmi, questo e Ada si alternano sulle stesse pareti a cadenza bimestrale. «C’è in programma – continua Chiarchiarico – di uscire anche dalla galleria, dalle sue mura. Anche perché in più di mezzo secolo di storia non si sono trovate alternative al white cube». E mentre De Leva comincia a liberare dal plurimball i suoi lavori lasciando scoprire una gamba bianchissima in vetroresina, Anselmi racconta come Ada sia il tentativo di risposta a un sistema fallato. «In Germania, come in Francia – dice – gli artisti usciti dall’accademia sono supportati da una serie di enti più o meno pubblici. In Italia vengono lasciati a se stessi». «Spesso – conferma Chiarchiarico – non sono in grado neanche di presentare un loro progetto, non capiscono la necessità di avere un buon portfolio o un sito curato e aggiornato. Ovviamente tutto questo ha delle forti ripercussioni sul mercato». «Ci siamo chiesti – prosegue Anselmi – perché l’arte italiana, soprattutto quella giovane, non sia presente sul mercato internazionale quando invece le potenzialità ci sarebbero pure. Molto crediamo dipenda da questo stato di cose. Le stesse che proviamo a cambiare qui».

De Leva esce, si accende una sigaretta fra passanti in maniche di camicia e cappotti invernali. Costruisce un panorama di sensazioni nel tentativo di illustrare quello che fa e cosa lo spinge a fare. Non sono concetti, piuttosto immagini che sembrano ricalcare il pensiero di Walter Benjamin quando cercava di convincere Adorno e il centro di sociologia a finanziargli i Passages. ”Non ho niente da dire, solo da mostrare” scriveva all’amico. Così i lavori dell’artista non hanno niente dietro, sono così e sembra quasi che lo scopo di De Leva sia far concentrare l’osservatore su quelle forme lì, sui quei materiali così, imponendogli un tempo di sguardo presente e fisso. Materiali trovati e modificati in un’infinita interpretazione del ready-made. Oggetti che diventano simboli dello sguardo dell’artista che ha trovato in quelle linee delle ancore della sua propria esistenza visiva, della sua presenza nel mondo. Spenge la sigaretta. «Non starai mica cercando di trovare delle parole per descrivere quello che faccio? Fidati, non ce ne sono». De Leva rientra, ha una mostra da allestire.

Info: http://ada-project.it