Rivoluzione in poliuretano

Non avete mai sfogliato il nostro cartaceo? Per farvi recuperare abbiamo selezionato un pezzo dal numero #110. L’articolo è parte del focus dedicato ai rapporti fra arte e suono. Qui e qui altri interventi della sezione.

Guardando i prodotti Gufram nessuno si sognerebbe di negare che sono opere d’arte. Casomai il contrario. Qualcuno potrebbe avere da obiettare sul fatto che una saponetta mozzicata e una lapide con su scritto Fine con il design abbiano qualcosa da spartire. Come ogni pezzo museale degno di questo nome, gli oggetti del marchio piemontese provocano un senso di inspiegabile disagio nei panni di oggetti d’uso quotidiano, mentre sembrano perfettamente adeguati se adagiati in qualche sala del MoMA. Questo perché, a forza di ridurre la funzionalità ai minimi termini, Gufram è riuscito a creare l’illusione che quegli oggetti, in primo luogo, non siano stati creati per avere uno scopo reale, scardinando una convinzione edificata da anni di design razionalista, e ha così abbattuto definitivamente la barriera che separava il design dall’arte. E l’ha fatto a colpi di poliuretano. Siamo alla fine degli anni Sessanta in Italia e molti marchi di design, come protesta contro il rigore monumentale che strizzava l’occhio ai regimi autoritari, si impongono attraverso la progettazione di oggetti eccentrici nei linguaggi, nei materiali e nelle forme. Così nascono una serie di lavori che rimandano più al pop di Claes Oldemburg che alle sedie Wassily. «Lo chiamano Radical design – racconta Charley Vezza, dal 2012 Global Creative Orchestrator e proprietario di Gufram – o anti-design, anche se questa definizione non mi piace». Ma da quel momento sono passati oltre cinquant’anni. Delle proteste resta solo un’eco, di quella filosofia un business e alcuni cactus, appendiabiti già considerati a pieno titolo oggetti d’arte.

Ha ancora senso parlare di design radicale?
«Per radical design generalmente si intende un movimento che si sviluppa in un particolare contesto politico e arriva all’incirca fino al 1975. Io lo concepisco invece come un atteggiamento. Radicale è una parola che mi piace molto quando parliamo di arredamento. Se negli anni ’60 prendevi un cactus e lo mettevi in un salotto stavi introducendo un elemento di rottura. Oggi la situazione è piuttosto invariata: le abitazioni private, gli hotel, usano ancora un tipo di arredamento classico, discreto. In questo senso, noi siamo lì, entriamo nelle case della gente con un gesto di rottura».

È stata sempre questa la linea di Gufram?
«L’azienda nata nel 1966 era completamente diversa, faceva arredamento classico. Grazie a personalità come Giuseppe Raimondi e Piero Gilardi è diventata con gli anni un laboratorio all’insegna della sperimentazione. A rappresentare la svolta l’arrivo del poliuretano espanso flessibile, un materiale che permetteva di fare molte più cose rispetto al tessuto. Non aveva bisogno di essere cucito e si poteva lavare e modellare a piacimento. Questo significava avere la possibilità di liberare le forme, aprirle alla fantasia. Da quel momento la parola d’ordine di Gufram è stata dissacrare».

Tu a Gufram invece come ci sei arrivato?
«Passano 46 anni quando mia madre, collezionista di Gufram, riesce a comprare l’azienda. Quando mi chiede di darle una mano sono a New York a lavorare per un’agenzia di comunicazione. Le dico di no, lei risponde che dal mese successivo l’affitto me lo sarei pagato da solo. Così sono tornato. In quegli anni Gufram faceva divani per discoteche anni ’80 e poltrone da cinema. Volevamo stravolgere tutto».

La tecnologia vi ha in qualche modo aiutato a farlo?
«Nel nostro campo credo che il cambiamento più importante sia stato quello legato all’informazione. Oggi è molto più pratico capire su internet come si fanno le cose, senza l’aiuto di nessuno. Ma la vera rivoluzione non è ancora arrivata. Il 3d cambierà ogni discorso legato alla progettualità. Viviamo in un mondo in 2d, il passaggio alla terza dimensione sarà di grande aiuto per visualizzare gli oggetti nello spazio. Per quanto riguarda Gufram, la tecnologia ci ha dato una mano ma la nostra è ancora una produzione artigianale. Nessuno immagina che dietro al Cactus ci sia qualcuno che pulisce le forme di poliuretano dalle imperfezioni, ci passa la vernice a più riprese, tutto manualmente. Il nostro grande vantaggio è che ci sono persone dietro a tutte le cose, cose che non possono essere copiate, perché lontane dalla produzione industriale».

È partendo da questa considerazione che sono iniziate le grandi collaborazioni con gli artisti, per esempio con Cattelan?
«A volte cominciano per una simpatia, altre per stima verso il lavoro di una persona in particolare. Si va un po’ per tentativi. Con Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari è andata che stavano preparando delle fotografie per Toiletpaper in casa di Dakis Joannou, grande collezionista greco di radical design e di Gufram. È in quell’occasione che Maurizio e Pierpaolo hanno deciso di scattare un’immagine con il nostro Cactus accostato alle due uova de La Cova, il nido a scala umana progettato da Gianni Ruffi. È successo verso il 2012, un po’ di tempo dopo ho visto quell’immagine sulla copertina di Toiletpaper e ho contattato Cattelan dicendogli che dovevamo parlare. Pensava gli volessimo fare causa».

Quello che dovrebbe distinguere un oggetto di design da un’opera d’arte è la funzionalità. Cosa succede quando passa in secondo piano?
«Le nostre sono delle sculture domestiche, non so quante persone le usino realmente. La funzionalità è una parte fondamentale nella fase creativa, serve a darci delle linee guida. Il design vero è migliorare l’uso di un oggetto: quando un designer fa una sedia più leggera, con materiale riciclato, sta risolvendo dei problemi. Noi i problemi li creiamo. Hai presente il diktat form follows functions? Per noi vale il contrario. Per questo se mi chiedi se mi considero un designer ti dico di no, cerco di guardare tutto e di non farmi influenzare da niente. Tra vent’anni Gufram forse sarà un artista, oppure un collettivo. Dobbiamo togliere la funzione per fare l’arte».

SUPERGUFRAM
L’azienda ha fatto un ulteriore passo verso l’arte contemporanea con SuperGufram, un progetto con cui ha debuttato a Design Miami/Basel a giugno. Definito come spin-off del brand, SuperGufram presenta una serie di pezzi in edizione limitata realizzati ogni volta da designer e artisti differenti. «Non ci siamo preoccupati – spiega Charley Vezza – della riproducibilità o del problema di una produzione seriale». L’iniziativa è partita con Studio Job, duo di designer che ha realizzato alcuni oggetti tra cui un sacco da boxe rivestito con una trama di mattoni, un coffee table dalle forme di una pentola, un separé che richiama la corteccia di un albero. Info: www.gufram.it

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