Montecristo Project

Non avete mai sfogliato il nostro cartaceo? Per farvi recuperare abbiamo selezionato questo articolo dal numero #109

Due espressioni della fotografia contemporanea si stanno affermando negli ultimi anni, entrambe volte a una ridefinizione del rapporto con l’oggetto. Da un lato la fotografia diventa materia, dall’altro la nega. Tutte e due sembrano l’effetto di un Occidente connesso, il risultato interpretativo di caratteristiche fondamentali del web. Alcuni fotografi oggettivano i loro lavori, lasciano il piano della rappresentazione in favore della tridimensionalità spaziale. Kate Steciw, Letha Wilson, Alex Marie sono solo esempi recenti di un filone vicino a Jon Rafman e le sue sculture. Sull’altro fronte una fotografia concentrata sui dati, l’archivio e la documentazione che al contrario sembra fare proprio il concetto di smaterializzazione. Tanto il primo punta alla presenza quanto il secondo si realizza nell’assenza. Nell’ultimo caso, l’oggetto a volte viene distrutto, come nelle opere di Simona Luchian e Sara VanDerBeek, dopo essere stato fotografato. L’immagine rimane l’unico dato ad attestare la presenza del lavoro. Senza raggiungere l’annichilimento Montecristo Project intrattiene con l’oggetto un rapporto ambiguo, non lo distrugge, ne nega la fisicità. Su un’isola deserta e segreta al largo delle coste sarde, all’interno di una torre spagnola del Seicento, Enrico Piras e Alessandro Sau, artisti fondatori già di Occhio Riflesso, hanno stabilito la sede di un nuovo spazio espositivo: Montecristo Project, appunto. Due mostre l’anno, viste esclusivamente dai due fondatori e dall’artista presentato. L’esposizione viene diffusa solo attraverso fotografie e video della stessa realizzate da Piras e Sau in collaborazione con l’artista. La mostra c’è, esiste, ma l’accesso è negato come anche l’esperienza diretta ai materiali, la stessa posizione dello spazio espositivo rimane sconosciuta. L’unico modo per vederla è attraverso le fotografie che restituiscono i lavori ma privati della loro fisicità, trasformati in immagine che diventa l’unico documento della, l’unico accesso per la mostra. «Il nostro spazio – dicono – non è solo un ambiente fisico ma le restrizioni e le aperture che ci impone lo denotano come qualcosa di diverso rispetto a un semplice spazio gestito da artisti. La definizione più adatta di Montecristo l’ha data l’artista Paolo Chiasera, che parla di psycho-insitution, uno spazio soprattutto teorico e speculativo sulle questioni legate allo statuto dell’immagine. «Le nostre mostre – continuano – sono fruibili esclusivamente attraverso la documentazione: una differenza sostanziale rispetto a un semplice spazio indipendente, così come il fatto che ogni mostra sia un terreno di indagine che cerchiamo di espandere attraverso scritti, saggi e contributi esterni raccolti in Montecristo writings».

C’è una svolta curatoriale nel passaggio fra Occhio Riflesso e Montecristo Project?
«Occhio Riflesso è stato un progetto nato dall’esigenza di esporre in contesti ideali i nostri lavori. Ci interessava soprattutto farlo per noi stessi e per avere uno spazio di libertà che ci permettesse di confrontare le nostre opere con quegli ambienti e paesaggi che le avevano in un certo modo ispirate. In quelle condizioni di solitudine e di allontanamento ci siamo trovati in maniera del tutto naturale e spontanea nel ruolo di curatori e fotografi delle opere e degli spazi, ricoprendo tutti quei ruoli che solitamente si frammentano in organizzazioni ben più stratificate della nostra. Successivamente abbiamo iniziato a coinvolgere altri artisti nel progetto, iniziando a lavorare più consapevolmente e criticamente come curatori e come creatori di spazi. È questo il momento di passaggio tra Occhio Riflesso e Montecristo Project. Nel nostro caso il ruolo di curatore mantiene una determinante matrice creativa, per la quale tale ruolo finisce per fondersi con quello dell’artista. Le opere che esponiamo vengono presentate in spazi che costruiamo e concepiamo appositamente come opera, alterando, condizionando, relazionando i lavori esposti con lo spazio creato. In questo modo si giunge a delle mostre che sono delle riflessioni ideali tra l’opera esposta e lo spazio creato, attraverso una intricata collaborazione tra artisti. Lavoriamo inoltre come artisti-curatori anche in altri contesti espositivi, attraverso la documentazione delle mostre sull’isola e costruendo spazi-setting per la fruizione delle opere».

La posizione dell’isola invece deve rimanere segreta a tutti i costi?
«È un elemento che ha un’importanza molto relativa: la sostanza del nostro lavoro non risiede nell’ubicazione dell’isola o nella sua inaccessibilità, questo è solo il risvolto necessario e visibile di una linea di pensiero che ha una sostanza in realtà presente e accessibile. Se l’isola venisse scoperta cambierebbe forse il senso e la sostanza di ciò che facciamo? Non è questo il perno del nostro lavoro, che potrebbe benissimo spostarsi in un’altra isola o semplicemente in un’altra forma simbolica o fisica. In realtà poi quello del segreto, dell’assenza, dell’invisibilità è uno stratagemma vecchio quanto il mondo, e che forse ha trovato nel cristianesimo e nell’architettura basilicale il suo più alto compimento. Le chiese, il loro percorso direzionale verso l’ampio vuoto dell’abside, celebrano e manifestano il massimo splendore di un assenza, di un segreto. Montecristo Project ricostruisce il manifestarsi di questa segretezza attraverso un’assenza materiale, l’isola che nessuno tranne noi e gli artisti partecipanti conosce, contrapposta a una presenza virtuale, la documentazione fotografica e la sua presenza continua e diffusa tra social network e riviste d’arte».

Tolta la magia intorno a Montecristo il progetto è un artist run space?
«È una domanda molto semplice e diretta che necessita di una risposta un po’ complessa. Il nostro spazio non è solo un ambiente fisico, cosa che è ovviamente il presupposto fondamentale per tutte le nostre attività, ma le restrizioni e le aperture che ci impone lo denotano come qualcosa di diverso rispetto a un semplice spazio gestito da artisti. Di diverso rispetto a un artist-run space c’è il fatto che siamo noi a creare lo spazio di volta in volta attorno alle opere, non abbiamo infatti un luogo che affidiamo totalmente ad altri artisti o curatori, ma ogni mostra è una forma di collaborazione tra noi e altri artisti. Le mostre sono inoltre fruibili esclusivamente attraverso la documentazione: questa è una differenza sostanziale sia in termini formali che concettuali rispetto a un semplice spazio indipendente, così come il fatto che ogni mostra sia un terreno di indagine che cerchiamo di espandere di volta in volta attraverso scritti, saggi e contributi esterni. Questi elementi fanno diventare un evento un terreno di ricerca concettuale per quegli aspetti che a noi e a chi collabora con noi interessa approfondire. Montecristo Project in questo senso, più che uno ambiente espositivo è una piattaforma in cui opere, saggi e immagini documentative contribuiscono alla definizione di uno spazio speculativo aperto sulle questioni dell’arte».

Quanto il fatto di esporre solo la documentazione della mostra è un risultato di pratiche legate alla post internet art e al valore dei dati sul web?
«Il lavoro attraverso la documentazione ha un valore fondamentale per noi: ci permette di far conoscere la nostra ricerca e allo stesso tempo di lavorare in una dimensione ambientale e storica che sentiamo nostra: quella della Sardegna. Per uno spazio volontariamente isolato la presenza virtuale è fondamentale quanto quella fisica. Ma non ci sentiamo affini a movimenti come il post internet, se non nella consapevolezza della connessione presente tra ciò che produciamo e i network con cui questi elementi sono connessi e inseriti. I luoghi e gli artisti che ci interessano hanno una connotazione definita e radicata in un aspetto antropologico, quasi arcaico, del fare. A interessarci è il principio di autodeterminazione, radicalità e forza della ricerca che ritroviamo nelle opere degli artisti con cui collaboriamo che hanno in comune questo principio identitario, distante dall’estetica post internet e dalle sue istanze».

Mostrare solo le fotografie di una mostra è smaterializzare i lavori esposti tagliando fuori il pubblico da un contatto diretto.
«L’apocalittica previsione di Walter Benjamin sulla riproducibilità dell’arte si è avverata, il sentimento di autenticità e di autorità della cosa sembra esser stato soppiantato dal suo spettro fotografico. Questo è un qualcosa di cui siamo perfettamente consci, un punto centrale attorno al quale buona parte del nostro lavoro si articola. Ma un processo che sostituisce l’opera con il suo spettro fotografico non fa altro che rafforzarne la presenza, seppure supposta e continuamente negata. Già negli anni ’60 del Novecento artisti come Gene Davis con i suoi Micro paintings si sono posti il problema della perdita dimensionale che dipende dai due fattori concomitanti che si affermavano proprio in quegli anni: lo spazio asettico del white-cube e la pratica dell’installation shot. Nel nostro caso però, in particolare con Occhio Riflesso, la materialità dei lavori non viene annullata, ma moltiplicata e rafforzata dalle texture e dalle dimensioni degli ambienti naturali o artificiali in cui esponiamo che danno anche un’idea della scala delle opere e delle loro caratteristiche formali».

Obbligare il pubblico a vedere solo con il vostro sguardo, attraverso le fotografie che fate delle mostre, non è una forma di sfiducia nei confronti dell’osservatore? E non è anche assecondare una pigrizia dello sguardo evitando al pubblico distrazioni, come anche altri potenziali punti di vista che potrebbero dare un nuovo sguardo ai lavori?
«A esser sinceri non si tratta qui di una vera e proprio sfiducia nell’osservatore, ma piuttosto di affrontare una questione storica, quella per cui l’arte si è così tanto adeguata al fruitore da perdere quasi di vista il proprio orizzonte conoscitivo. Oggi le mostre funzionano come qualsiasi altro evento, perseguendo l’indefinito senso di riuscire nell’attirare il maggior numero possibile di persone. Se vogliamo Montecristo Project è un tentativo di riapertura verso un senso dell’arte quale strumento essenziale per la comprensione del reale, un mezzo conoscitivo che non si pone l’osservatore come traguardo da raggiungere in tutti i modi. L’utilizzo della documentazione fotografica per la diffusione delle mostre non dipende da un nostro specifico desiderio di organizzare la visione del fruitore. Se questo avviene è solo di riflesso. Se poi si pensa un po’ più con attenzione all’arte nella sua forma di rappresentazione del reale, è l’arte stessa ad essere un modo di indirizzare lo sguardo, il più evidente esempio storico in questo senso è la prospettiva rinascimentale. La concezione occidentale della pittura come finestra sul mondo è per noi la forma più canonica e universale di rappresentazione: la fotografia, nella forma dell’installation shot, non fa altro che ricalcare questo genere di visione classica e umanistica che pone l’occhio come vertice ideale di ogni rappresentazione».

Montecristo Project come anche Occhio Riflesso sono infatti incentrarti sull’Installation shot e sul white cube.
«Esatto. Ci sembra infatti che il modo in cui la documentazione delle esposizioni viene recepita sia ammantata di quella stessa presunta neutralità che un tempo circondava il white-cube. È attraverso il canone dell’installation shot, oltre che attraverso i sistemi economici e di mercato, che oggi avviene l’attestazione di valore delle opere e la loro storicizzazione. Non è più, o non solo, l’opera a dare valore alla struttura architettonica, ma avviene il contrario. In questi termini il white cube si pone come ente legittimante di qualsiasi oggetto vi transiti dentro. Il modo più immediato di rendere questo passaggio di consegne tra l’opera e il suo spazio è proprio la fotografia dello spazio. L’allestimento è, anche da un punto di vista fotografico, oltre che storico ormai, quel valore curatoriale che attraverso la disposizione delle opere nello spazio ne condiziona la lettura in base ad accostamenti e posizionamenti scenici d’insieme».

Sembra che tutto questo abbia a che fare con la negazione intesa come gesto d’affermazione. Christo, Isgrò, Sorrentino con The Young pope e voi sono tutte forme fondate su una negazione iniziale. Quanto è più forte un no?
«Nel nostro caso il percorso verso la negazione delle opere (in presentazioni dal vivo) è stata molto graduale: abbiamo iniziato con Occhio Riflesso ad allontanarci dai contesti espositivi canonici, e ci siamo resi conto che negare le opere, restituendole attraverso fotografie che le ritraggono in contesti che ne amplificano il senso, può aggiungere visioni e significati ai lavori. Negare, sottrarre qualcosa è un gesto delicato e complesso quando si parla di immagini, da bilanciare con tutti quegli aspetti che costituiscono la visibilità di un progetto. Nel nostro caso è importante che la negazione dell’immagine sia compensata da altri elementi, quali la restituzione di un ambiente narrativo, di un contesto magico che deve circondare l’opera e che, se da un lato serve a sottrarla allo sguardo, dall’altro, attraverso la pratica fotografica dell’installatiion shot, ne moltiplica la visibilità attraverso un canone estetico. Come in tutti gli esempi che hai citato, anche per noi la negazione è una forma di amplificazione del senso, un elemento che determina curiosità e interesse riguardo a un progetto, ai suoi aspetti misteriosi e ai suoi sviluppi. Ogni immagine fotografica è una selezione di elementi che si vogliono rendere o meno visibili, per cui un’operazione di taglio, di negazione, è implicita; estendendo questo discorso a un intero progetto è fondamentale mantenere un controllo di quelle atmosfere, di quegli spazi e di quei luoghi che è l’opera a determinare e richiedere. Ogni spazio negativo tende ad invertire il suo rapporto con l’occhio dell’osservatore, è una forma di esibizione/display alla rovescia, in cui è l’opera che ci osserva mentre ci esponiamo a cercarla».