Il tetto dei poeti

È stato pubblicato il catalogo del Maam, museo dell’altro e dell’altrove, invenzione di Giorgio de Finis che è anche curatore del volume edito da Bordeaux edizioni e del quale abbiamo già pubblicato l’introduzione. Presentato poche settimane fa è ora disponibile sul sito della casa editrice. Fra i vari commenti ricevuti da de Finis per il lavoro, uno spicca fra gli altri. A scriverlo è l’artista Alessandro Ferraro che con una mail al curatore espone il suo pensiero non solo sul volume ma sui cinque anni di lavoro dietro al Maam.

«La prima lettura – scrive Ferraro –  sfogliando quelle pagine, scorre come le dita che sfiorano la superficie dell’acqua. Ci si lasci pure incantare dai riflessi del sole, dalla polvere che galleggia, da una foglia. E forse basterebbe anche così. Basterebbe semplicemente guardare come si fa a teatro con le marionette, col mago che non ti svela mai come si fanno le magie.

Tante cose passano sulla superficie, ma raccontano soltanto il come. Come viviamo, amiamo, disperiamo. Ma se vogliamo il perché, allora bisogna rubare il segreto del mago. Non si tratta di capire. Almeno non nel senso della tecnica. La tecnica non è necessariamente abilità, la tecnica non fa la magia. Forse più che guardare il cappello e il coniglio bisognerebbe guardare lui, cercarlo e provare a sorprenderlo, per una volta. Magari ci regala qualche segreto.

Parole misteriose. Qualcuno ha detto ”come si fa con i bambini, caspita ha già cinque anni”. Mi ha colpito quella frase, e allora ho pensato: ma ha veramente cinque anni? Forse è più grande sto ragazzino. Ricordo che ho provato una strana sensazione a quelle parole, all’idea stessa di quel festeggiamento, lecito, ma non completo secondo me. Cinque anni che lo hai adottato, che gli hai dato un nome, che hai deciso di proteggerlo e farlo crescere. I cinque anni del bambino MAAM, che in realtà era nato prima, ma nessuno lo voleva. Era dimenticato, lasciato crescere in una fabbrica abbandonata, dove si squartavano i maiali per l’insaziabile bisogno di abbondare, consumare, rendere consumabili anche i mangiatori per quella logica che ci assedia tutti e che si autoalimenta proprio dei nostri peggiori pensieri. Non divago, il mio sguardo resta su quel bambino che forse era un movimento.

Persone senza un tetto da ogni parte del mondo confluivano in quel non-luogo (almeno per noi che aborriamo tutto ciò che viene abbandonato, che non ha più motivo di esistere, inutile, lasciato arrugginire a testimoniare quei nostri peggiori pensieri) e ne facevano la loro casa. Un movimento che nasceva da una disperazione certo, ma supportato da una vitalità decisa a sopravvivere a tutti i costi: ricominciare, provare a vivere comunque.

Quindi nasceva il bambino, lo facevano nascere tutte quelle persone, ma anche lo odiavano. Il suo sguardo rimandava loro quel degrado, la sofferenza di una condizione che chi si sforzava di costruire una normalità tra vecchio ferro e gomma rancida, non riusciva proprio a sopportare: non vedevano il bambino. E non lo sopportavamo noi, che da fuori lo guardavamo sbirciare, nascondersi, sgattaiolare come un animaletto. Noi i normali, i civili, i consumati consumatori. Noi gli artisti, gli intellettuali. Consumati. Il bambino era nato ma viveva solo, senza capire, ma sperando in uno sguardo che, dall’altra parte del cancello, provasse la stessa curiosità per un altro essere umano. Un altro sguardo di bambino.

Un bambino senza un nome. Poi, per motivi che potrebbero riempire pagine e pagine e come quella polvere galleggiare fino al macero senza spiegare niente, sei passato tu. Non si sa come, ma in quel momento incrociando il suo sguardo, hai scoperto di avere i suoi occhi. Ma che ne so com’è stato possibile. Però hai trovato il cancello socchiuso e sei entrato. I cardini arrugginiti cedevano a fatica, e tanta altra fatica sarebbe costato quel passo che dava su altri cancelli chiusi, ai quali hai dovuto bussare ancora a lungo. Se fossi stato da solo, probabilmente saresti entrato subito. Ma avevi con te il bambino, e quel bambino ora aveva un nome. Forse ancora solo immaginato, ma tu l’avevi riconosciuto. E quando vediamo qualcuno che gli altri fanno sparire è come chiamarlo per nome.

Hai obbligato tutti a vederlo. Solo che piano piano il bambino mostrava sempre più interesse e appariva molto diverso da come se lo ricordavano loro. Forse non era più soltanto l’incarnazione di quella disperazione, dello sporco, del degrado. Portava con sé, forse, anche la risposta a una speranza che aveva mosso i passi molto, molto lontano. il bambino svelava colori e ombre, e un po’ alla volta ti ha fatto conoscere il drago. E magari anche quello non ti era del tutto sconosciuto.

Persone che viaggiano cercando un tetto. Qualcosa che li accolga e li protegga, da dove si possa ricominciare, scrivere un’altra storia, non soltanto voltare pagina. E quando a voce alta hai pensato: MAAM, l’hai sentito ridere. Che fare?

Hai chiamato gli artisti. Artisti che viaggiavano cercando un tetto anche loro, forse, insieme ad altri artisti che pur avendo già un tetto sulla testa, non hanno resistito all’idea di costruirne un altro ma vero, fatto di legno o tegole o forse proprio di quelle tele così ben protette dai tetti virtuali delle loro gallerie. Le tele con le ali morte appese alle bacheche di certe gallerie. Forse forse, anche gli artisti erano in viaggio, lo sono sempre stati, speriamo lo saranno sempre. Forse proprio ora, mentre la disperazione muove migliaia di persone per sopravvivere, dovremo pur capire che ognuno di noi nasce con un tetto che si muove insieme a lui. E quel tetto ha un nome. Un tetto invisibile che ci permette di guardare stelle e nuvole, ma che solo i poeti sanno descrivere.

Il bambino MAAM ha festeggiato i suoi cinque anni del suo nome, ma a guardarlo bene è molto, molto più grande. Molto più vecchio, come la storia di chi per primo ha deciso che l’Africa non era una casa abbastanza grande, molti molti anni fa. Noi tutti veniamo da quel movimento, tutti gli artisti lo sanno, e non fanno altro che provare a raccontarlo.

Ed eccoci tutti qui sotto questo tetto, che non basterà per tutti o per sempre, ma intanto tiene, e si è rinforzato di tegole ognuna spessa mille pagine. E i bambini si fanno seri mentre ascoltano la musica degli uccelli, pensano cose segrete subito svelate. Ma sempre bisogna andare. Lasciare il tetto a chi verrà dopo, per poi andare ancora».

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