Antonio Fiorentino a New York

Antonio Fiorentino ci accoglie sorridente nel suo studio al terzo piano dell’ISCP – International Studio & Curatorial Programme, di New York, dove sta per concludere il progetto di residenza iniziato lo scorso febbraio. Il suo rifiuto per le interviste è ormai cosa nota, nessuno sembra sia mai riuscito a registrare il suono della sua voce; preferisce in qualche modo che siano le sue opere a raccontarsi. Ma Fiorentino il mestiere di artista lo conosce molto bene, il marmo e la scultura sono infatti diventati nel tempo alcune delle componenti fondamentali del suo alfabeto visivo.

Alla base di tutta la sua ricerca c’è un amore e una conoscenza molto profonda della materia, e dei materiali, che l’artista alternativamente preleva dalla strada o dalla natura nel corso delle sue camminate o sceglie di trasformare all’interno del suo studio. L’intento è sempre quello di prendersi cura di tale materia ma anche di misurarne i limiti, «d’indagarne il fato», talvolta assumendone il controllo totale talvolta lasciando che a farlo siano l’azione della natura e dei suoi agenti. La posta in gioco nel lavoro di questo giovane artista è davvero molto alta, specialmente nel suo rapportarsi con il tempo, non a caso Gino De Dominicis viene spesso citato quale riferimento nelle sue conversazioni in materia di arte. Ciò a cui Fiorentino aspira, con un atteggiamento sempre al limite tra assoluta serietà e ironica autocoscienza, è una sorta d’immortalità dell’opera, da collocare non esclusivamente all’interno di una storia dell’arte quanto invece all’interno della più ampia storia dell’uomo.

Il suo fare arte in fondo risponde a un bisogno primario di lasciare una traccia della sua permanenza sulla terra. Questa aspirazione lo porta a prediligere materiali molto resistenti ma soprattutto a cancellare dalle sue opere quasi ogni elemento che potrebbe ricondurne l’appartenenza alla nostra epoca storica. Ne risulta quindi un cortocircuito di grande interesse: una schiera di sculture pensate per resistere al decadimento del tempo ma curiosamente simili a relitti, o reliquie, provenienti da un’epoca lontanissima.

Le opere realizzate nel corso della sua permanenza a New York, pur interagendo con gli stimoli e i materiali offerti dalla città, non tradiscono questa aspirazione. Al centro dello studio Dominium Saturnus (Wall Tea), un progetto di complessa gestazione che testimonia la fascinazione dell’artista nei confronti dell’alchimia, la pratica di trasformazione della materia per antonomasia. In molte delle vecchie case di Manhattan, inclusa quella nella quale risiede Fiorentino, è tutt’oggi presente una vernice contenente piombo, dal contatto con il quale si può contrarre il saturnismo, malattia che tra le sue conseguenze più gravi annovera l’insorgere della pazzia e addirittura la morte.

Fiorentino preleva dal suo appartamento frammenti di questa pittura tossica e li inserisce all’interno di grandi ampolle di vetro che installa sul pavimento del suo studio. Con l’aggiunta di acqua calda la vernice inizia a rilasciare il piombo permettendo di distillare il «liquido saturnino», una tisana che paradossalmente, se bevuta, potrebbe condurre i visitatori dello suo studio a squilibri mentali permanenti. In Anobiumraggie, altra indagine intorno al tema della malattia, dodici sottili lastre di marmo bianco vengono pazientemente scavate in superficie come se a compiere tale azione non fosse stato il lavoro dell’artista ma un immaginario tarlo in grado di nutrirsi del marmo.

Curiosa e forse più velatamente ludica è Unicorn, scultura di piccolissime dimensioni nata dall’innesto di una coda di lucertola all’interno del corpo essiccato di un cavalluccio marino, materiali entrambi reperiti dall’artista in una farmacia cinese di Manhattan. Ne risulta un essere immaginario e misterioso – fossile del passato o creatura del futuro? – che aspira a suscitare nello spettatore un certo senso di stupore e di «meraviglioso», emozione che l’artista costantemente cerca di generare in coloro che si relazionano con le sue opere.