Maam, breve storia del museo sulla luna

Viene presentato il 22 aprile al maam il catalogo edito da Bordeaux edizioni che racconta la storia di questo particolare museo abitato nella periferia romana. Per l’occasione riportiamo l’introduzione del volume scritta da Giorgio de Finis, ideatore del progetto maam e curatore del catalogo che raccoglie le voci dei protagonisti legati alla città meticcia. 

Sono entrato la prima volta a Metropoliz nel 2009, una delle tante scoperte che mi ha riservato primaveraromana, il giro a piedi del Grande Raccordo Anulare organizzato da Stalker1, tre mesi di esplorazioni urbane alla ricerca del nuovo fronte della città. La fabbrica, un ex salumificio dismesso, era stata occupata da poco. Sul tetto vigilavano, a turno, gli abitanti, aspettando, come nel romanzo di Buzzati, l’arrivo dei Tartari. Visitare questo relitto urbano, abbandonato da decenni, con le pareti marroni di grasso e fumo e i macchinari per la macellazione impolverati e ormai inoffensivi, anche se non per questo meno minacciosi, percorrerne le ampie sale e i lunghi corridoi, abitati dal buio, ma dove a tratti la luce entrava prepotente da un tetto crollato, fu un’esperienza che si fissò nella memoria, la mia e quella, esosomatica, della mia videocamera. Nella mia, entrando in risonanza con altri luoghi, visti o immaginati, alcuni appartenenti ai territori del mito e della fiaba. L’idea di costruire un razzo per andare sulla Luna era nata al Casilino 900, il campo rom più grande d’Europa, quando era sfumato (letteralmente) il sogno della Casa di Tutti. Ma forse fu proprio vagando in questo oscuro labirinto (che non era privo di elementi di fascinazione, con quella luce gentile che filtrava al tramonto dalle finestre a brise soleil esposte a ovest), che si affacciò nuovamente l’idea di dotarsi, come Icaro, di ali per guadagnare il cielo.

Space Metropoliz, che abbiamo definito ”cantiere etnografico, cinematografico e d’arte”, è un (contro)dispositivo situazionista (crea una ”situazione”, nel caso specifico quella del ”fare cinema”) e relazionale che ha utilizzato lo strumento del film-documentario come cavallo di troia per varcare, nel 2011, la soglia della fabbrica occupata e raccontare sogni e bisogni di una comunità di migranti e precari che ha deciso di fare di un ex salumificio la propria casa.

Il film fantarealista, che annuncia l’inizio dell’era delle migrazioni esoplanetarie, decide di guardare al nostro satellite come a una nuova terra promessa: la Luna è di tutti e nessuno se la può comperare! Per un anno Space Metropoliz trasforma l’ex salumificio in un enorme cantiere ”aerospaziale”, attraversato da filosofi, scienziati, artisti, architetti, performer. Ognuno, così come ciascuna disciplina, col compito di contribuire a creare le condizioni del gioco. L’obiettivo: la costruzione collettiva del Razzo, un oggetto d’arte che voleva essere anche una provocazione (”una lettera al sindaco”), da realizzare insieme per dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che l’arte appartiene a tutti e che ogni cosa può diventare il simbolo di un affrancamento possibile.

Sulla torre della fabbrica fanno la loro comparsa il grande telescopio costruito con i bidoni del petrolio da Gian Maria Tosatti (alla cui realizzazione partecipano attivamente gli abitanti di Metropoliz, tagliando, assemblando e saldando metallo) e la grande insegna di Hogre, coi suoi trenta metri di altezza, nuovo landmark urbano ad uso dei viaggiatori del quadrante stellare di Tor Sapienza, il quartiere che – sia ricordato per inciso – le cronache recenti hanno portato sulle pagine di tutti i giornali per i gravi episodi xenofobi di cui è stato teatro. Seguono i grandi muri dipinti da Sten & Lex e Lucamaleonte, la bandiera per l’allunaggio di Paolo Assenza, l’orto lunare di Fabio Pennacchia, di notte anche sistema di illuminazione per le scale buie che portano alle abitazioni. E mentre Collettiva Geologika impastava coi piedi la terra cruda per costruire il suolo della Luna, scenografia di un film senza copione che guarda a Miracolo a Milano e Méliès, il pittore astratto Antonello Viola si faceva teletrasportare con il suo studio nella camera da letto di Lucio e Roxana, di nazionalità peruviana, dove lavora per due giorni sotto lo sguardo divertito e incredulo dei padroni di casa che scoprivano che c’è chi si guadagna da vivere ”dipingendo quadrati colorati tutti uguali”.

Il film racconterà una favola a lieto fine, quella del viaggio dei ”metropoliziani” alla ricerca di un mondo migliore dove tutto è possibile, anche ricominciare, accendendo un riflettore sulla grave questione dell’emergenza abitativa e su un esempio di convivenza e di riscatto sociale tutt’altro che fantascientifico, quello realizzato da Metropoliz, la città meticcia.

Il maam Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia – dove l’Altrove è la Luna e l’Altro è ciascuno di noi rispetto a tutti gli altri – nasce nel 2012, al termine delle riprese del film. È figlio di Space Metropoliz, ma in qualche modo se ne discosta. Innanzitutto per il fatto di abbandonare la dimensione tutta speculativa e ludica e farsi pratica edificante. Il maam inizia a ”costruire”, si affianca al lavoro degli abitanti nell’opera di riqualificazione degli spazi, reinventa, grazie all’intervento degli artisti, luoghi di nuova socialità, per chi vive a Metropoliz, per il quartiere e per la città tutta. Space Metropoliz guardava alla Luna (che è irraggiungibile per definizione) anche per non cadere nella trappola di creare aspettative che poi inevitabilmente sarebbero state inattese (com’era successo al Casilino 900). Ma la Luna Metropoliz se l’era guadagnata! e questo apriva nuovi scenari permettendoci di scommettere sulla capacità dell’arte di cambiare il mondo. Oggi il maam conduce la sua battaglia per assicurare, e non solo immaginare, un futuro migliore agli abitanti di Metropoliz, ancora sotto la minaccia dello sgombero coatto, per trasformare i sogni in realtà.

Tra gli obiettivi che il maam si dà sin da principio possiamo indicare:

1) quello di creare una barricata d’arte a difesa dell’occupazione e dei suoi abitanti (le opere attaccate ai muri e alle strutture della fabbrica sono un esercito schierato); la cacciata di 200 persone (di cui settanta minori) dalle loro case sarebbe comunicato con un trafiletto in cronaca dal titolo: “Bonificata l’area della ex Fiorucci”, mentre la distruzione di cinquecento opere d’arte equiparerebbe chi invia le ruspe ai talebani che cannoneggiano i Buddha in Afghanistan;

2) quello di evitare, o ridurre, l’effetto enclave, rischio che Metropoliz corre dovendo proteggersi dietro un cancello chiuso; il potere attrattivo della collezione del maam e delle sue iniziative periodiche – le aperture del sabato e le inaugurazioni collettive in occasione di solstizi ed equinozi – crea un flusso ininterrotto di visitatori, connettendo di fatto la città meticcia con il resto della Capitale: il maam opera come un dispositivo di incontro e mette in atto precise ”strategie” affinché questo sia possibile e fecondo di arricchimento reciproco;

3) quello di proporre e sperimentare un ”altro” modello di museo, un ”museo abitato” e contaminato dalla vita, che Cesare Pietroiusti ha definito museo reale (vs museo irreale) proprio in una lectio marginalis tenutasi al maam; come pure, di converso, 4) una modalità abitativa informata dalla presenza diffusa e onnipervasiva dell’arte.

Infine, 5) quello di realizzare un’opera corale (una ”barriera corallina”, come suggerisce Pablo Echaurren) inneggiante al valore della (bio)diversità (il maam non è solo un progetto artistico; ma in quanto super-oggetto è anche un’opera d’arte e in più di una occasione si è anche presentato come un soggetto artistico).

Il museo nasce acquisendo la collezione di ”relitti spaziali” di Space Metropoliz. Il primo intervento realizzato dal maam è stato quello di Veronica Montanino per la ludoteca. Non deve essere stato facile per gli artisti, all’inizio, ”vederlo” il museo attraversando gli spazi abbandonati e fatiscenti del salumificio dismesso. Come non è sempre facile per il visitatore distinguere le opere dalle installazioni ”spontanee” che la vita di tutti i giorni genera a Metropoliz. Ma la sua ”stanza dei giochi” Veronica l’ha vista, nonostante facesse acqua dal tetto (ci sono voluti sei mesi e una mostra collettiva dal titolo L’arte aiuta l’arte, ma non solo per raccogliere i fondi e impermeabilizzare i soffitti). Il 6 gennaio del 2013 i bambini di Metropoliz hanno festeggiato la Befana giocando in un nuovo spazio reso ”magico” e sorprendente dall’arte, magia e sorpresa che rapidamente si sono estese a tutti gli angoli della fabbrica, man mano che il testimone passava da un artista all’altro, violando, su richiesta degli stessi abitanti, anche la sfera privata degli ambienti domestici.

Il maam invita tutti gli artisti a dare il loro contributo, chiunque per autolegittimazione si definisca tale è il benvenuto. In questo senso non seleziona (anche se ogni intervento proposto viene poi presentato e discusso in assemblea). Ogni artista è anche invitato a realizzare l’opera a proprie spese. Il maam utilizza il valore di mercato delle opere per difendersi (sfrutta come il lottatore judo la forza aggressiva dell’avversario per farlo cadere), ma rifiuta ogni forma di finanziamento, pubblico o privato. Il maam si fonda sulla logica del dono.

Realizzare un’opera al maam, vuol dire anche firmare una petizione virtuale (e non) a favore di Metropoliz, contro la precarizzazione della vita, per il diritto alla casa, alla libertà di movimento, alla bellezza, all’arte e alla cultura per tutt*. Per questo considero il maam un museo politico.

Il maam prova a ricucire i due punti estremi della metropoli contemporanea – il luogo più alto per eccellenza, quello del museo d’arte (il cui prezioso involucro è affidato, dalle città-mondo in competizione, alle archistar) e il più basso e degradato, lo slum – combatte un modello di città che, tramite lo strumento della finanziarizzazione degli immobili, allontana sistematicamente le fasce economicamente più deboli dalle aree appetibili della città globale, riservate agli investitori e al turismo di massa, aumentando il divario tra centro e periferia, sempre più omologato (e disabitato) il primo, tanto da apparire un nuovo non-luogo (con i suoi musei, negozi, alberghi, tutti uguali), contrapposto a una periferia-discarica che rischia di divenire teatro permanente di una lotta tra poveri.

In città il Museo dell’Altro e dell’Altrove vuole essere una spina nel fianco di un sistema museale troppo spesso consegnato alle gallerie ”e ad altre consorterie”, rilancia, in un mondo sempre più diseguale, un modello di cultura che possa contribuire alla crescita della società tutta. Per questo Luca Bergamo, che ha rinominato il proprio assessorato in questi termini, si è detto interessato a valorizzare e a fare tesoro della lezione del maam.

Lo scorso 10 dicembre Marc Augé ha visitato il Metropoliz e lo ha definito un Super-luogo. Si celebrava in quella data l’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani ratificata a Parigi sessantotto anni fa:”Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Attualmente molti degli articoli di questo codice etico internazionale, redatto dopo le carneficine del secondo conflitto mondiale, l’Olocausto nazista e le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, sono di fatto inapplicati. E non solo dagli Stati che, pur dentro la compagine delle Nazioni Unite, non vi si potevano conformare – perché caratterizzati, ieri e oggi, da regimi totalitari – ma anche da coloro che l’hanno voluta e sottoscritta. La Francia, patria della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, i cui principi sono alla base della carta redatta nel secondo dopoguerra, in risposta agli attacchi jihadisti subiti, per un tragico scherzo del destino proprio a Parigi e a Nizza, dove fu firmata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha sospeso l’applicazione della Cedu, dichiarando lo stato di emergenza. Non ci soffermeremo sulla questione se possano essere ”sospesi” i diritti universali dell’uomo, tra cui quelli a un equo processo o alla libertà di espressione, senza automaticamente negare l’umano e uscire dallo stato di diritto. Ma l’attacco massiccio nei confronti dei diritti universali non è solo una questione inerente la ”sicurezza” e le leggi speciali in tempo di guerra (il diritto a proteggersi, da un male, quello del terrorismo, che molti autori considerano peraltro una malattia autoimmune, basterebbe a consentire uccisioni, torture, carcerazioni preventive e altre barbarie?). Ha a che vedere soprattutto con l’aumento progressivo e incessante della diseguaglianza che caratterizza il modello (unico) di sviluppo perseguito dalla globalizzazione, con un 1% della popolazione mondiale che possiede il 46% delle risorse disponibili e un 50% della popolazione mondiale che non possiede nulla. Due miliardi di persone, appartenenti a questo 50%, ci ricorda Alain Badiou, «non dovrebbero esistere», perché non sono, e non possono diventarlo, né produttori né consumatori: «…passare da quelli che dovrebbero non esistere alle pratiche mirate alla loro inesistenza, il passo è breve». Sono le vite di scarto di cui parlava Bauman. Umanità in esubero, esistenze da rottamare. Un modo per negare questa fetta di umanità è proprio non riconoscerle i diritti. Basti pensare agli accordi di Dublino, che vietano a profughi e migranti quella libertà di movimento che nessuno si sognerebbe di negare ad altre categorie umane meglio equipaggiate economicamente (studenti stranieri, uomini d’affari, turisti) costringendoli a restare nel primo paese di arrivo, quale che fosse la destinazione desiderata.

Il passo dopo è lo ”sterminio”. È improprio chiamare così la mattanza che si svolge nelle acque del Mediterraneo, con i cadaveri che si arenano sul bagnasciuga a pochi metri dai villeggianti che prendono il sole? O quello delle popolazioni africane decimate dall’Aids e dalle epidemie (che non si arrestano perché le multinazionali dei farmaci non sono disposte a rinunciare a una quota dei profitti, permettendo le cure anche a chi non è in condizione di pagarle)? O ancora le vittime ignorate delle mille guerre minori che si combattono con il fine di zonizzare interi territori e permetterne il saccheggio? Interrogarsi oggi sui diritti universali (e anche su cosa faccia la nostra umanità, che è questione ancora più importante), vista la portata delle diseguaglianze cui assistiamo, vuol dire interrogarsi sul senso delle nostre democrazie. «A un certo grado di diseguaglianza, parlare di democrazia o di norma democratica non ha più alcun senso», conclude Badiou nel volume citato. Mi chiedo, e l’ho chiesto a Marc Augé, se c’è una soglia relativa alla disuguaglianza oltre la quale parlare di genere umano diventa impossibile. Perché dato lo stato delle cose, delle due l’una, o si aboliscono i diritti dell’uomo o si espelle dall’umanità una parte (sempre crescente) della popolazione mondiale, lasciando che i diritti divengano appannaggio solo dei cittadini facoltosi (gli unici ”cittadini”, appunto).

Scrive a proposito l’antropologo francese: «è perché ogni individuo è consapevole della presenza in lui di una dimensione generica che può sentirsi vicino a qualsiasi altro essere umano». Ma, ricorda Augé, «la consapevolezza che, secondo le parole di Rimbaud, ”Io è un Altro”, non conduce necessariamente alla proposizione inversa e reciproca: ”l’Altro è un Io”»! L’Altro che oggi non vogliamo riconoscere come un Io non è più lo straniero (il portatore di valori, usi e costumi differenti, sempre difeso, in nome della relatività delle culture, dall’antropologo), ma il povero. È lui il bersaglio della xenofobia e del razzismo della nostra epoca. L’alterità culturale ci appartiene (viaggi, cucine etniche, world music, ecc.), mentre la povertà ci terrorizza, perché essa ci ricorda, come uno specchio nel quale non si vuole guardare, che a molti di noi basta poco per trovarsi dall’altra parte. Credo che non ci sia luogo migliore di Metropoliz, per affrontare questioni come queste. Perché a Metropoliz queste cessano di essere questioni ”astratte”. In questo strano museo di risulta, come è stato definito, vivono uomini, donne e bambini che sulla loro pelle sperimentano ogni giorno che cosa vuol dire vivere fuori della società. Sono loro, gli uomini, le donne e i bambini di Metropoliz e delle altre occupazioni romane e italiane, i destinatari dell’art. 5 del Piano Casa, il decreto legge Renzi-Lupi n. 47 del 28 marzo 2014 che ha stabilito che chi vive in uno spazio occupato (vale a dire chi non può pagare un affitto o comperare una casa) non ha diritto alla residenza, e senza la residenza non si possono rinnovare i documenti, iscrivere i figli a scuola, votare, avere un’assistenza medica, chiedere e ottenere la cittadinanza italiana se si è stranieri. E ci sono i militanti del movimento di lotta per il diritto all’abitare, vero obiettivo ”politico” della legge, perseguitati e sottoposti a misure restrittive perché hanno deciso di ribellarsi al ”destino” che è stato loro assegnato. E poi ci sono gli artisti, sempre più liberi, è vero, e al tempo stesso, anche loro, nell’epoca dell’arte espansa, sempre più a rischio di andare a ingrossare le fila del Quinto Stato. Agli artisti Augé riconosce un carattere vivificante, una istanza rivoluzionaria e democratica, la capacità di evocare, contro l’apparente immutabilità delle cose, uno stato nascente, il potere di donare «a tutti e a ciascuno l’occasione di vivere un inizio», snidando, proprio come l’antropologo, «il culturale e l’artificiale sotto la maschera della natura». Il mondo come lo conosciamo forse può essere rovesciato, ad arte!

Il futuro di questo museo ”abusivo”? Da un anno Metropoliz è sotto processo. Lo sono gli attivisti e gli abitanti; lo saranno presto anche gli artisti? Ci piace continuare a pensare che sia possibile convincere le istituzioni, e anche i palazzinari, che è possibile e bello guardare alla Luna.

Forza tutt*.