David Salle a Parigi

Originario dell’Oklahoma, trasferitosi a New York negli anni ’70, David Salle incarna una complessa generazione di artisti cresciuta all’ombra dell’Empire State Building. Julian Schnabel, Jean-Michel Basquiat, Robert Longo, Eric Fischl, sono solo alcuni dei nomi che hanno accompagnato gli esordi di Salle. Cresciuto in Kansas e diplomatosi in Belle Arti alla scuola californiana di Cal Arts, il percorso dell’artista inizia ai margini della critica militante, redattore di Artforum, Salle comincia ad interagire con l’ambiente artistico newyorkese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo. Una prima personale al The Kitchen descrive la sua rapide ascesa che lo porterà nel 1981 ad esporre negli spazi della galleria Mary Boone con una sua prima importante mostra. Da quel momento le opere di Salle verranno esposte nei più grandi musei del mondo. Il suo vocabolario estetico – pittorico propone, nella sua forte capacità di osservazione del reale, la sintesi di un figurativismo che di volta in volta crea diversi elementi: dai dipinti di poster strappati all’introduzione di oggetti concreti inseriti nel tessuto cromatico di partenza, l’impulso artistico viene organizzato intorno ad un gesto teatrale e pittorico, che di volta in volta assume forme e derivazioni differenti. Abbiamo incontrato David Salle in occasione della sua personale alla galleria Thaddaeus Ropac di Parigi dove l’artista ha presentato una nuova serie di opere su tela e un’inedita produzione di lavori su carta il cui supporto proviene dalla collezione di Life Magazine datata 1960. 

“Per tutta la mia vita sono tornato a più riprese su una stessa domanda: qual è la necessità che giustifica la creazione di qualcosa come l’arte?” Questo brano è tratto dal celebre saggio di Joseph Beuys intitolato Cos’è l’arte?. Mutuando le parole di Beuys, rispetto la sua personale esperienza, qual è la domanda che ha avuto un ruolo centrale nella sua vita e nella sua carriera?
«È una questione di priorità, e di come si costruisce la propria identità. Alcune persone preferiscono essere elevate, altre fottute».

Riflettevo sul significato di autenticità e ho letto questa citazione di Albert Camus: “Senza cultura, e senza la relativa libertà che essa implica, la società, anche se perfetta, non è che una giungla. Questo è il motivo autentico del perché una creazione è un dono del futuro “. Secondo il suo punto di vista artistico ed estetico che cos’è autentico?
«È difficile esprimerlo a parole, ma “autenticità” ha due componenti che di solito sono in una sorta di tensione con l’altro. Essi sono il rapporto con il proprio tempo e la relazione privata con i propri talenti e predilezioni». 

Cercando materiale sulla sua carriera, ho trovato un imponente ed immersiva bibliografia riguardante i suoi esordi e le sue opere, mi chiedevo se c’è una domanda a cui non ha ancora risposto e vorrei sapere se è stata rivelata ogni cosa sulla sua vita pubblica o c’è ancora altro da scoprire?
«Certamente non ho letto tutto, quindi non posso rispondere in via definitiva, ma non ricordo di aver sentito molto parlare di cose come l’umorismo, la musicalità, la sensazione di spontaneità, la sorpresa e il ritmo – elementi che danno sapore alla vita. Perché non parlare di questi argomenti in pittura?».

Nal libro “Life Stories” di David Remnick lei afferma: “Tutta la mia carriera ha avuto a che fare così tanto sulle aspettative delle persone che hanno riposto in me. Ma è stato anche perché io stesso odio aspettare. Sono entrato in empatia con il torturatore. Trovo molto facile, ad esempio, entrare in sintonia con Robert Hughes quando scrive della sua avversione per il mio lavoro. Mi dispiace molto per lui. Ho dovuto imparare a ritardare, ho dovuto imparare ad essere crudele, a trasudare ostilità. Ma non è proprio la mia natura. Lo faccio male, perché non è quello che sono”. Che cosa ha imparato dalla paura di un fallimento?
«Non sono sicuro di aver compreso fino in fondo la sua domanda, ma il rischio reale del fallimento – in tutti i sensi – è integrato in ogni arte. Quella sensazione di nausea e di perdita fa parte di ciò che si deve passare per arrivare al proprio obiettivo. Perché dovremmo aspettarci una ricompensa?»

Crede che l’elezione di Donald Trump influenzerà l’arte americana nei prossimi quattro anni?
«Sicuramente per gli anni a venire, ma non necessariamente in modo evidente».

Qual è la sua opinione circa l’evoluzione del mercato dell’arte nel corso di questi ultimi dieci anni? Qual è la principale differenza tra questa nuova era di fiere d’arte e l’inizio della sua carriera artistica?
«Sono desolato ma questa roba, il mercato, non mi interessa molto. C’è una enorme quantità di talento in questo momento. Il mercato è sempre stato un pessimo indicatore artistico, non parla di nulla tranne che di se stesso».

Dopo una carriera così intensa e colma di successi ha ancora in mente un progetto o un’opera che non è stato in grado di realizzare durante la sua vita?
«Ho molti dipinti che sono ancora in attesa di essere realizzati – vorrei vederli, sentire questo impulso che si concretizza. Sto anche scrivendo molti testi. E sto lavorando a un grande progetto per un’abitazione modulare. Mi piacerebbe anche realizzare un altro progetto curatoriale – qualcosa che riunisca combinazioni improbabili di artisti che ho nella mia testa».

Attualmente è in mostra alla galleria Thaddaeus Ropac di Parigi. Qual è il suo approccio verso la cultura europea?
«Questa è davvero una grande domanda! Il mio approccio, come la cultura in sé, è sempre in movimento. Se vuole dire, in modo restrittivo, arte visiva, o anche più restrittivo, pittura, devo ammettere che il mio approccio fluttua all’interno di una sorta di triangolo entro amore, antagonismo e noia».

Fino al 25 febbraio, Galerie Thaddaeus Ropac, rue Debelleyme 7, Parigi; Info: www.ropac.net