Luca Grechi, In-Finito

Che l’arte imiti la natura è una massima troppo prudente, bisognerebbe piuttosto dire che la natura è un prodotto dell’arte. L’arte così, e soprattutto la pittura, abbandonerebbe uno stato di rappresentazione per accogliere un dato di presentazione. «La mia pittura – dice Luca Grechi protagonista a Montalcino con la mostra In-Finito nella Galleria La Linea – non rappresenta ma presenta stati umani e segni». In questo sistema di corrispondenze artificiale-naturale, si confondono i piani della copia e dell’originale e il tempo che impiega un albero per crescere diventa lo stesso di un quadro per completarsi. «Abbiamo davanti a noi – continua Grechi – un paesaggio che per diventare così ha impiegato secoli. Ora sembra tutto d’oro, questa mattina non era così e domani non sarà la stessa cosa. Considero un mio quadro riuscito quando, come questo paesaggio, ogni volta si mostra diverso».

Il tempo diventa per Grechi una dimensione pittorica fondamentale e definisce il suo sguardo sul mondo, la modalità di lavoro e la fruizione dello spettatore. «Il nostro sguardo ha un tempo – precisa – un anno fa non avrei visto questa campagna come la vedo ora, i miei occhi sono più precisi, vedo particolari che prima forse non avrei mai notato. Uno sguardo che ho costruito nel tempo sfogliando anche i libri che avevo in casa, I maestri del colore, per saziarmi delle immagini. Lì dipingi non dipingendo, impari a capire la figura anche se non stai studiando teoria, impari a guardare queste grandi opere che poi ti rimangono dentro».

E poi il tempo della stratificazione pittorica.
«Certamente, di fronte allo spazio della tela si consuma una guerra in sordina, stratificare è combattere con la superficie e con il tempo, un faccia a faccia non trascurabile. Di fronte a quel bianco e fra gli strati pittorici nasce un alfabeto visivo che porta dal vedere qualunque cosa, a non vedere più niente, a vedere di nuovo qualcosa per poi ricadere nel nulla e arrivare alla fine a rivedere tutto. Il quadro ha una sua vita che non comprendi subito, spesso l’errore è non lasciargli tempo».

Infine il tempo dell’osservatore.
«Questo non lo so, vorrei che ci si avvicinasse ai miei dipinti piano, sono dimensioni che possono sembrare vuote, ma spesso sono solo pause dal mondo».

E del resto il titolo della personale, In-Finito, chiarisce subito la dimensione temporale del lavoro di Grechi. Il curatore della mostra Davide Sarchioni trova le radici di questa modalità di stare al mondo nell’Informale, non per esiti raggiunti ma per intenti potenziali. «L’Informale – dice – è stato il primo a raggiungere una trascrizione diretta del vissuto che porta il tempo all’interno dell’opera. Penso all’ Espressionsimo Astratto, alle azioni di Pollock e agli strati di Rothko. A questo Grechi aggiunge una sincerità che unisce l’artista e lo spettatore attraverso il quadro, quello che si vede è esattamente come è stato realizzato e l’osservatore attento arriva a ripercorre le varie stratificazioni materiche, arriva insomma a vivere il tempo dell’artista lasciato sulla tela».

Strato sopra strato, colore che si aggiunge a colore e definisce un campo materico indefinito nel quale a volte compare un soggetto che intrattiene con lo sfondo un rapporto paritario, «una rappresentazione sorgiva – usando le parole di Sarchioni – che per sua natura è potenzialmente infinita nel suo sommare gli strati. Il titolo della mostra In-Finito – continua – nasce da qui, vuole rivolgersi al processo creativo. Finito significa che il lavoro è compiuto ma nel caso di Grechi è un solo pretesto, se non ci fosse stata la necessità di completare il quadro il processo sarebbe durato all’infinito. Infinito – aggiunge – come anche non finito, aperto a tutte le possibilità del caso». «È un lavoro – commenta il gallerista Matteo Scuffiotti – di pancia quello di Luca che nulla ha a che fare con il concettuale, la sua è un’opera che rimane aperta. Questa mostra per esempio è solo una delle possibili mostre che potevamo fare sulla sua produzione. Non ci sarà mai ”La” personale di Luca Grechi, ci sarà sempre e solo un capitolo del suo percorso».
Sarchioni: «E del resto non esiste una pittura concettuale, sarebbe un errore».
Scuffiotti: «Esatto, credo che la pittura debba essere muta, che non debba mai avere bisogno di parole. Sono estremista forse ma per me la pittura apre e la parola chiude. Anche gli oggetti di Luca, le colonne per esempio, non sono concettuali».
Sarchioni: «No, assolutamente, rimangono sempre pittura, risolvono dei problemi tipicamente pittorici, cercano risposte nel rapporto fra figura e sfondo».
Scuffiotti: «È una pittura oggettuale. Credo che la parola chiave sia toccare. Luca ha costruito questi oggetti non per fare delle sculture ma per toccare la pittura».
Grechi: «Sono segni nello spazio. Per me non c’è differenza fra le tele e gli oggetti».

Scuffiotti: «Rientrano in quell’apertura di cui parlavamo prima, che da una parte ha portato ad oggettivare e dall’altra a calcare sulla stratificazione, fino a farla diventare velatura, come nell’ultimo quadro, quello rosa».
Sarchioni: «Quel lavoro mi sembra un nuovo incipit più che una conclusione, una porta aperta verso qualcosa».
Scuffiotti: «Ma Luca è così: inesorabilmente costante eppure sempre diverso. Aggiungo una cosa, e lo dico da collezionista, chi ama il lavoro di Luca lo fa da subito, e nel suo caso ciò significa sempre riuscire a percepire un’apertura al cambiamento, i suoi lavori non sono mai un circuito chiuso, non potranno mai esserlo, proprio perché lui non ha in testa nessuna possibile chiusura. Se il suo lavoro ti entra sotto pelle nello stesso tempo ti apre immediatamente a qualsiasi altra possibilità di fruizione futura. Poi è chiaro, questa mostra non piacerà a chi non piace Grechi ma aprirà sicuramente altre strade a chi invece amava il lavoro di Luca di qualche anno fa».

Silenzio. Tutti annuiscono intorno al tavolo bianco della galleria ancora vuota a qualche ora dall’apertura della mostra.
Scuffiotti: «Poi noi qui stiamo solo parlando, parlare fra noi non conta: il giudizio devono darlo gli altri, l’arte ha senso soltanto in quanto condivisione».

Grechi la mattina dopo l’inaugurazione è a Paganico, vicino Montalcino, nel suo vecchio atelier. La nebbia ancora non ha liberato il paese, è domenica e non c’è nessuno nella piazza che si vede dalla finestra. «C’è una pulizia visiva – dice – come quando riflettiamo sui grandi spazi, sull’altezza, sulla luce e la pulizia visiva non è assenza di fastidi, ma eliminazione di distrazioni, di oppressioni. L’immagine pittorica penso debba mirare questa purezza. Vedi, è un lavoro disumano aggiungere strati di materia e colore per raggiungere una sottrazione, approdare a una sintesi in forza di accumulazioni».

Al centro della stanza c’è una scala di legno che non porta da nessuna parte, si poggia sul pavimento e arriva fino alle travi del soffitto.

«Passare degli strati di velature – continua – su dei segni che avevano una loro identità li trasforma, ritornano con una forza diversa, decisamente più puliti, purificati dalla materia, come si autogenerassero, si rivelano e trovano un posto nello spazio e nel tempo. Una pittura del genere la controlli ma fino a un certo punto. È un lavoro riflessivo ma più ancora di pancia, la mia pittura ha bisogno di un atteggiamento verso la pittura che non sia razionale ma di completo abbandono: accoglierla, vederla, trovarla».

Fino all’11 dicembre, Galleria La Linea, via Mazzini 21, Montalcino; info: www.gallerialalinea.com