Nomi, cose, città – Giorgio Ortona

Roma

Grandi vedute urbane, e poi corpi, interni, sacchi di cemento, bassi elettrici, calchi di dentiere. Ecco la mostra Nomi cose e città di Giorgio Ortona, curata da Gabriele Simongini, realizzata in collaborazione con M77 Gallery di Milano. Famoso per la sua innegabile passione per le palazzine, quelle romane in particolare, e soprattutto quelle poste fra centro e periferia, l’artista mette in mostra al Macro Testaccio (8 dicembre – 15 gennaio 2017) una sorta di vertiginoso censimento di quel visibile metropolitano che costituisce il suo territorio di caccia prediletto. Una specie di ossessione classificatoria che richiama ludicamente, come dice il titolo della mostra, il gioco Nomi cose e città che era tanto in voga qualche decennio fa e che per il nostro artista è anche un irresistibile richiamo all’infanzia.

Il nucleo centrale della mostra si basa su una serie di grandi vedute urbane dedicate alle palazzine romane ed ai cantieri. E nellʼallestimento si realizzerà un coinvolgente cortocircuito dimensionale, visto che le opere esposte andranno dal formato cartolina a quello cinemascope. In una sorta di ideale giro dʼItalia e poi del mondo, compaiono anche vedute, edifici e cantieri di Napoli, Palermo, Il Cairo, Kiev, Nuova Delhi, tutti simili e anonimi come immagini di un mondo globalizzato ed omologato. È il trionfo di un anonimato quotidiano che rende protagonista solo la pittura, una pittura meticolosa come quella di un pittore antico e fondata essenzialmente sul bisturi analitico e costruttivo del disegno. Ne emerge, come scrive nel suo saggio in catalogo Gabriele Simongini, ”il sublime quotidiano come fatto concreto, con una struttura e uno scheletro, perfino un ritmo. E Giorgio Ortona lo cerca ansiosamente salendo sulle terrazze condominiali con la stessa trepidazione con cui i romantici ascendevano alle vette delle montagne alla ricerca del divino nello spettacolo della natura. A lui, però, agnostico dichiarato, la trascendenza non interessa, pur perseverando nella ricerca di un proprio, personale assoluto che appunto è forma, composizione, struttura, ritmo”.

«Cerco lʼassoluto – dice Ortona – attraverso le forme. E quando mi chiedono di dare una definizione a quel che faccio dico solo che sono un pittore. Non voglio illustrare niente né essere connotato». È questo il punto: a Ortona sta troppo stretta la classificazione di pittore figurativo, come si vede in mostra. Nellʼinsisterci sopra, nota ancora Simongini, ”si limita lʼampiezza pluralista di una ricerca che ha forte analogia con la musica (lo ribadiscono, fra lʼaltro, anche la passione di Ortona per il jazz elettrico, da lui suonato e lʼattenzione maniacale alla composizione, come se la tavola fosse un pentagramma) e con sintetiche componenti astrattive. Se da un lato è inevitabile pensare, solo per fare due nomi fra i più importanti per la pittura di Ortona, alle periferie del secondo dopoguerra di Renzo Vespignani (grande artista scandalosamente misconosciuto) e allo sconvolgente realismo di Antonio Lòpez Garcia, sotto un altro punto di vista è lecito chiamare invece in causa Piet Mondrian, mutatis mutandis, con il suo neoplasticismo musicale ed universale che si chiude e si rinnova al tempo stesso a contatto col diorama metropolitano di New York City”.