La luce di Cesare Accetta

In occasione dell’inaugurazione, della nuova Project Room al Madre, Museo d’arte contemporanea di Napoli, è stata presentata un’opera site-specific, in Luce, dell’artista Cesare Accetta. La presentazione dell’opera, curata da Maria Savarese, rientra nel progetto Per formare una collezione: per un archivio dell’arte in Campania. Incontriamo il Accetta nel foyer del Teatro Bellini di Napoli. È in pausa durante un suo lavoro di regia delle luci per Bordello di mare con città, spettacolo prossimo ad andare in scena.

La luce è per te cibo quotidiano, la tua ultima opera presentata al Madre si chiama in Luce e qui ora ti stai occupando della luce in scena.
«Sì, in effetti per via di questa luce mi trovo spesso a lavorare in teatro come nel cinema a contatto con la fotografia e con il video».

Questo spiega in parte anche la complessità del modo di presentarsi della tua opera. Grandi ritratti proiettati sull’intera superficie delle tre pareti di una stanza che sembrano mutare per poi scomparire e lasciar posto ad altri. Nel doverla classificare si può restare interdetti,  sembra nutrirsi tanto della fotografia quanto del cinema. Da che prospettiva hai lavorato?
«Mi sono già esplicitato nella titolazione dell’opera: in Luce. È un lavoro su di essa. Ma è anche fotografia in quanto c’è una scrittura di luce. Certo non essendoci un supporto fisso l’immagine non è immobile, anzi c’è come nel cinema, movimento. Vediamo per l’appunto, venticinque immagini fisse al secondo. In effetti il suo statuto è immateriale, è nello specifico un video-ritratto, la sua consistenza è decisamente, elettronica. Ogni video-ritratto ha una durata di cinque minuti, l’opera complessiva ne conta cinquantacinque, suddivisi per tre gruppi con una durata di un’ora e trenta minuti».

Il tuo può essere, in questo senso, un ritratto contemporaneo?
«La definizione che dai tu, è molto giusta. Della pittura, trattengo quel senso di sospensione. L’osservatore è faccia a faccia col soggetto. Il silenzio è amplificato dall’assenza di suono. Tutto ciò convoglia l’attenzione su un vedere lento che è proprio ciò che cerco, rispetto a un’eccessiva velocità che la visualità attuale impone. È evidente che su una sequenza troppo frammentata non c’è il tempo per elaborare un pensiero rispetto a ciò che stiamo vedendo. Si deve riabituare lo sguardo a un tempo riflessivo».

È come se facessi posare i tuoi soggetti come nei primi ritratti fotografici dell’Ottocento, in cui il modello posava per lungo tempo dinnanzi all’obbiettivo. Il tuo risultato in questo caso, è mostrare il tempo d’attesa, non lo scatto finale.
«Direi che nell’opera ho condensato sia il tempo di costruzione che quello della visione. In questo senso è il tempo stesso il modo di incontrare l’opera. Un tempo che attende e che s’attende. Una pausa».

Fino al 28 novembre, Madre, via Luigi Settembrini 79, Napoli; info: www.madrenapoli.it