Intervista con Alice Schivardi

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

L’artista parla al nostro inconscio, quella parte dell’Io inaccessibile, che oscilla tra dimensione onirica e intima realtà. Lo spettatore, armato di placida irrazionalità, non può che partecipare al dialogo che l’artista propone intessendo l’uso dei materiali differenti, dei suoi viaggi, delle storie raccolte. Alice Schivardi è esattamente ciò che si potrebbe definire un’artista totale e totalizzante, vive il suo presente come parte di un’opera d’arte, componendo ogni giorno, la visione d’insieme dell’opera stessa. «L’arte è vita», proprio come lei stessa asserisce. 

J’etais fille unique è la tua ultima mostra, che vede il confluire di opere legati a temi differenti. Com’è possibile conciliare cicli artistici differenti e differenti tecniche di lavorazione?
«La mia ricerca abbraccia diversi linguaggi, ma per me confluiscono tutti in un’unica visione, in un’unica grande tela; è la ricerca dell’intimità nascosta, della spiritualità, della diversità. Il mezzo con cui opero è sempre stato funzionale all’idea che volevo sviluppare. Non mi sono mai limitata, anche quando le richieste di mercato me lo imponevano, come per non amputare i rami di un albero in piena crescita. Mi sono sempre messa in gioco, sperimentando linguaggi, sia tecnologici che manuali, e aprendomi a una serie di collaborazioni da cui ho sempre tratto nuova linfa per le mie opere. Sono devota alla vita e sento che la mia missione è proprio quella di trovare quell’ingrediente magico che accomuna tutti gli esseri viventi, non solo gli esseri umani, i materiali che utilizzo per le mie opere sono persone, storie da raccontare, animali, micro esperienze, insomma tutto ciò che è vibrante, pulsante di vita. In questo nuovo progetto, le opere selezionate si incastrano perfettamente fra di loro creando una nuova unità. Nonostante le differenze temporali, di tecnica e di realizzazione, allo spettatore è data la possibilità di fare nuove connessioni. Sono sempre molto riconoscente verso chi sa cogliere, attraverso il proprio sguardo, nuove anime invisibili. Non mi fa paura spaziare, sento troppo strette per me le esperienze univoche, sento che la mia ricchezza sta proprio nel riuscire a immergermi ogni volta in una situazione altra e a creare ponti fra i sottili confini del reale e irreale, fra mito e quotidianità, fra naturale e sovrannaturale. Le mie opere vengono attivate dalle persone che incontro o meglio dalle storie che incontro e che sembra non aspettino altro che essere disvelate. Alla base di ogni mia opera c’è un emozione, una vibrazione che mi ha risuonato con quella storia. Non importa più quindi che la protagonista sia io, una nonna di una periferia romana, una menestrella femminista, un cane, un insetto o un oggetto, se questo permette di aprire a nuove considerazioni, a nuove intuizioni. È nella diversità che ritrovo l’unità».

Per la serie Tutti con me e io con voi hai viaggiato dall’ Europa alla Cina convivendo con famiglie. Cosa ha rappresentato questa esperienza a livello di crescita artistica e personale?
«Quello di immergermi in comunità particolari è sempre stata la mia propensione. Fin da quando ero bambina amavo frequentare case di riposo per anziani o qualsiasi altro luogo dove stare in compagnia. Sentivo l’esigenza di scoprire nuove prospettive di visione e condivisione, di sentirmi in famiglia. Questo viaggio alla ricerca dell’altro non è mai terminato. È mia grande passione cercare uguaglianze tra le diversità, quasi un’ossessione…Sottolineare l’ Umanità, trovare gli invisibili legami umani che ci accomunano. Sentire che mi posso trovare a mio agio o che posso essere accolta da una famiglia del Burundi, da una di un quartiere periferico di Roma o in Cina, mi dà la sensazione di appartenere al tutto. È così che sento che tutto è connesso. Avere la possibilità di entrare in contatto con quelle che sono le usanze del luogo che mi ospita è estremamente importante, anzi direi vitale. In ogni famiglia ho scoperto esserci sempre un luogo interiore comune dove posso sentirmi a mio agio e parte di loro nella mia differenza. Mi piace pensare che chi, guardando le mie famiglie, si sente Alice, ritrova delle qualità nascoste, parti di sé sopite».

Al centro della tua ricerca c’é l’indagine sulle relazioni umane. Ritieni che l’artista sia un perfetto animale sociale in grado di azzerare la distanza tra il pubblico e il suo lavoro?
«Non posso parlare per gli altri artisti, però reputo importante che ogni vero artista sia immerso nella propria ricerca personale e umana, il che non vuole dire essere necessariamente un animale sociale ma semplicemente se stesso. La penso come De Dominicis: “Svegliarsi e portare una gallina a passeggio e sperare di essere proprio se stessi a farlo”. Penso che l’arte dovrebbe essere parte del processo culturale del proprio tempo ed è quindi necessario azzerare la distanza fra pubblico e il lavoro d’arte, proprio perché il pubblico non può esistere senza l’opera e viceversa. Il pubblico sono persone differenti ma comuni. Sono proprio le persone comuni a rispecchiarsi nei miei lavori in quanto esse stesse sono protagoniste del mio lavoro. Detto ciò l’arte è per chi vuole fare lo sforzo per entrarvi, per capire. Penso che debba essere accessibile a tutti ma che implichi uno sforzo che non tutti vogliono fare».

Quanto è difficile, per un’artista così intimista, conciliare il proprio esistenzialismo con l’ habitat che la circonda, con il feedback dello spettatore?
«Ho sempre avuto la mia cerchia di fan che non mi hanno mai lasciato sola e che mi hanno dato il sostegno e la forza di andare avanti. Le mie opere sono state realizzate grazie alla collaborazione di molte persone che hanno creduto nel mio lavoro, che, oserei dire si sono rispecchiate in esso. Da Napoli a Brescia a New York, ho sempre trovato persone in ogni dove disposte o a confidarsi di fronte a una telecamera o a supportarmi con la propria esperienza lavorativa. Il mondo in fondo non ti lascia mai solo perché il mondo è un humus di vita. L’arte è vita».


BIO
1976
Nasce il 20 dicembre a Erba
2008
Vince il concorso Videominuto del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci
2011
Entra nella collezione permanente del MU.SP.AC, Museo Sperimentale per l’Arte Contemporanea
2013
Vince il premio Maretti per l’arte contemporanea
2015
Partecipa alla collettiva Imago Mundi, a cura di Luca Beatrice, nella Fondazione Sandretto Re Rebaudengo

PROGETTI
L’ultimo progetto di Alice Schivardi, J’etais fille unique, è stato esposto nella galleria Natoli&Mascarenhas nel Principato di Monaco. La mostra nasce come ideale prolungamento del progetto Ero figlia unica, realizzato nel Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro nel 2015, e nel quale convergono differenti cicli artistici, seppur guidati da un’unica e tangibile entropia; è proprio la misura del disordine, l’entropia appunto, (dal greco ἐν, “dentro” e τροπή, “trasformazione”) a collegare e ricondurre tecniche e opere diverse, attraverso la ricerca e l’esaltazione della diversità, (intesa come intimità nascosta, spiritualità del singolo), a un unico filone, concepito come un’immaginaria e cosmica tela. La contrapposizione di Caos e Cosmos non ci parla quindi di massimi sistemi, bensì di individualità e esistenzialismo, ed è un invito per lo spettatore a guardare l’opera come se stesso.

 

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