Intervista con Francesco Irnem

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

Due anni di architettura in cui matura l’interesse per il paesaggio urbano, il diploma all’accademia di belle arti di Roma e poi la passione per lo yoga che lo ha portato a diventare maestro. Francesco Irnem racconta come i suoi lavori mescolino suggestioni diverse e media eterogenei. Un’arte, la sua, che si è continuamente rinnovata negli anni e continuerà a rigenerarsi in futuro.

Come è iniziata la tua produzione artistica?
«Con la pittura, in chiave tradizionale. Ero affascinato dall’arte rinascimentale e medievale. I primi lavori avevano un forte realismo, in cui non si vedeva la pennellata e a stenti si a riconosceva la pittura. Aveva però un taglio molto concettuale, era una pittura improntata sulla smagnetizzazione della pittura. Facevo dei video, lo riproducevo con un sistema analogico su un televisore a tubo catodico, poi avvicinavo un magnete al tubo e l’immagine veniva distorta. Realizzavo degli scatti e da questi infine arrivavo a dei dipinti. L’immagine era frammentata, un lavoro che si concentrava sui processi di alterazione, dei contenuti informativi, del digitale, c’erano riferimenti a Derrida, Baudrillard. Questo è continuato per un po’ di anni».

E poi?
«Ho iniziato a utilizzare materiali nuovi, come cemento, resine e calcestruzzo. Tutto ciò che normalmente viene usato nell’ingegneria del cantiere. Ne ho visitati molti, ho parlato con i muratori cercando di capire come si fa una gettata di cemento. Mi ha sempre affascinato l’idea di conflitto che c’è tra l’uomo e la natura. Su queste riflessioni ho sviluppato l’ultimo progetto che poi è la somma di un’indagine durata circa quattro anni in cui ho viaggiato, raccolto materiali e realizzato esperimenti vari. Questi materiali da cantiere hanno una forte connotazione sociale c’è un po’ la storia dell’Italia, della speculazione edilizia legata ai processi di urbanizzazione, alla promessa di un mondo felice che poi di volta in volta è stata smentita. Mi interessava anche il movimento dell’anarchitettura, Gordon Matta Clark, per esempio. Tutto è confluito in Questa e solo una promessa di felicità, mostra curata da Raffaele Gavarro che ho realizzato lo scorso settembre alla galleria Anna Marra di Roma».

Quella esposizione era incentrata sullo spazio e sul concetto di confine.
«Sì, quella mostra ha un focus molto preciso: il rapporto tra spazio naturale e spazio artificiale e la necessità per l’uomo di sentirsi protetto nei confronti dello spazio stesso, di porre dei margini, delle linee di confine. La mostra si muoveva proprio su questi confini. Tutto nasceva da una domanda: quando la natura diventa artificiale? Qual è il momento in cui c’è questo slittamento? Una risposta non è facile, è tutto molto intrecciato».

Nella mostra erano esposti anche dei dipinti astratti, che ricordano dei tramonti. Come si legano con il tema centrale?
«Sono dipinti a olio, realizzati con polvere di grafite, detriti di cemento e laterizi mescolati con il colore, poi stesi su tela di lino e applicati su lamina di alluminio. Nascono da foto di paesaggi defocalizzate. L’idea è nata per caso: un giorno in tangenziale, bloccato con la macchina, ho visto un tramonto illuminare molti palazzi con le inferriate davanti. Ho preso la macchina fotografica e mi sono reso conto di un processo ottico, in realtà molto noto, il primo piano era a fuoco mentre quello dietro no. Da lì ho cominciato a notare come queste strutture metalliche, queste protesi, alterassero il nostro modo di vedere. Ovunque andiamo ci sono sempre questa sorta di gabbie. La riflessione è legata al rapporto falsato che abbiamo con il paesaggio. Questa relazione è sempre filtrata, mediata da una serie di sovrastrutture, come le case per esempio, da categorie psicologiche che nascono dalla necessità dell’uomo di sentirsi protetto».

Vivi e lavori tra Roma e New York, quali sono le principali differenze tra queste due città?
«Ho avuto uno studio a New York per diversi anni e continuo ad andarci. La differenza principale è che la figura dell’artista lì è perfettamente integrata nel tessuto economico. Negli Stati Uniti, gallerie, musei, artisti e galleristi formano un cerchio che funziona. Tutto è coordinato. Questo manca in Italia, dove al contrario tutto è molto segmentato. A New York puoi studiare il lavoro di artisti che magari tra vent’anni saranno importanti. Vedi qualcosa che ancora non è istituzionalizzato, che ancora conserva la freschezza perché fuori dal sistema. È un po’ quell’idea di laboratorio che manca in Italia. Qui c’è poca attenzione nei confronti del nuovo, oppure c’è, ma non nel modo giusto».

BIO

1981
Nasce il 21 novembre a Roma

2011
Espone nella galleria Valentina Moncada di Roma

2013
Vince il primo premio alla Biennale giovani di Monza

2015
Partecipa alla collettiva Close up a Palazzo Collicola di Spoleto

2015
Tiene una personale nella galleria Anna Marra di Roma intitolata Questa è solo una promessa di felicità

 

Progetti futuri
Francesco Irnem ha in cantiere una mostra alla Morelli Contemporary di Bruxelles, probabilmente in autunno, sempre curata da Raffaele Gavarro dove presenterà lavori legati ai temi su cui si era incentrato per la personale da Anna Marra: «Sto continuando su questo filone, anche perché quella mostra è stata un po’ un attentato a me stesso: sono sempre stato condizionato da questa ricerca del bello, da questa ossessione, la pittura un po’ ti ci porta. È difficile emanciparsene, è solo quando poi ragioni con lo spazio che riesci a muoverti su cose diverse».