Intervista con Vincenzo Schillaci

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

I lavori di Vincenzo Schillaci non vengono bene in foto. Ci sono dei lavori che invece in foto vengono benissimo, potremmo dire che sono stati fatti solo per venire bene in foto. Quelli di Schillaci no. Ma a lui non interessa. «Non mi interessa» dice davanti a un suo quadro, nel suo atelier romano e provvisorio alla fondazione per l’arte. I lavori di Schillaci non vengono bene in foto e questo più che un male sembra un bene. Pare anzi la logica conseguenza di un modo di vivere dei quadri «sono – continua infatti Schillaci – una possibilità di uno spostamento, anche semplicemente di una pausa da uno sguardo sul mondo. Sono autonomi e autonomamente si ribellano a questo periodo. Sono antagonisti, al di là di qualsiasi proposito». Strati di pittura e stucco definiscono tavole di legno più spesso che tele. La tecnica calma e complessa che li realizza è un sistema che l’artista si è imposto per costruire dei confini nel tentativo di trovare una regola in un campo potenzialmente sterminato per spazio e azione. La reiterazione della prassi conferma questa necessità.

È un’ossessione.
«Vivere lo spazio circoscritto di una superficie è una follia. Non ci sono fondamenti logici, crei una grammatica per darti delle regole e poter agire. Sei dentro uno spazio che non ha una vera dimensione, sei circoscritto formalmente e concretamente da un perimetro ma è completamente espanso. A volte sento questa pratica come una gabbia, ma altrimenti il campo sarebbe troppo vasto, dovevo trovare un appiglio che mi costringesse dentro qualcosa, che mi desse una misura: in questo caso quello di una scansione costante del tempo».
Perché è chiaro che la stratificazione si tira dietro una pluralità temporale: l’attesa fisica necessaria al completamento di un livello, base per quello successivo; il tempo mentale dell’artista accolto fra uno strato e un altro; uno scorrere universale radicato nella pratica che comporta un’idea di non finito o di lavoro infinito, potenzialmente stratificabile fino all’ultimo respiro.

Come sei arrivato alla stratificazione?
«Aggiungendo il più possibile».

E prima che disegnavi?
«Ero un figurativo. Poi ho cominciato a coprire i quadri».

Hai iniziato coprendo i tuoi stessi quadri?
«Sì, con mani di colore, con qualsiasi cosa, con tutto quello che poteva schermare il tecnicismo».

Questo stratificare è fin dall’inizio una pratica antagonista, anche contro te stesso.
«Sì, più o meno, mi ha permesso di stabilire dei limiti. Le rappresentazioni in questo momento mi sono scomode, creano dei riferimenti troppo precisi per lasciare uno spazio libero».
Quello di Schillaci è un dipingere per metafore in cui sembra ricercare la libertà di una interpretazione soggettiva lontana da qualsiasi imposizione. «Le immagini vivono un congedo dalle definizioni convenute, abitano un campo diverso, vivono una dimensione poetica. Creano un’alterità rispetto ai codici comuni».

Per questo i tuoi lavori sono astratti?
«Questi quadri vivono formalmente dentro il campo dell’astrazione ma sono anche frutto di un esperienza sensibile».
Strato scherma strato e lascia segni dello strato sottostante. Nei lavori di Schillaci si consuma una guerra in cui ogni aggiunta è un muro che fronteggia chi lo guarda e lo spinge a chiedersi cosa nasconde. La curiosità diventa desiderio e spinge a superare un confine invalicabile. Nasce così il pensiero dell’oltre, dell’aldilà del muro, che porta a riflettere sul qui, «una barriera che è dispositivo esistenziale». Barriere che nei lavori di Schillaci diventano corpo: al confine della cornice rivelano il processo di aggiunta materica che le definisce, strati che formano dei gradini introducendo l’osservatore nel quadro.

Perché riveli il processo ai lati?
«Perché è al margine, come in architettura c’è sempre un modo per entrare in un posto, una possibilità».

Una riflessione sul confine, di nuovo.
«Sì. E sul dubbio. Questi scalini sono anche dei momenti in cui penso che il quadro potrebbe finire in quel punto, ma poi casomai cambio idea».
I quadri dell’artista diventano delle isole metaforiche che impongono una riflessione sul concetto di margine, un luogo dove oltre non si può andare, dove dopo c’è il mare, lo stesso che pare bagnare i suoi lavori e trasformare il margine nella zona più preziosa come un bagnasciuga usato dall’acqua che chiama e rimanda la stessa terra. «I miei quadri – dice Schillaci – sono custodi di un modo di stare al mondo, mi sembra che abitino il tempo del quando tutto è già passato, mi piace vederli come superstiti del nostro crollo». Riflessione che l’artista sottolinea anche con la scultura in cui presenta alcuni calchi di parti anatomiche disgregate dal corpo. Spesso sono di gesso, presi da qualche gipsoteca o raccattati fra la terra delle discariche di alcune fonderie, «sono frammenti usati per formare delle sculture e poi gettati. Mi interessa che questi calchi sono solo un passaggio, formati per costruire altro e infine scartati». I calchi diventano scatole che aprono una riflessione sul nostro stare nel mondo, «la nostra presenza fisica – afferma Schillaci – il nostro corpo è sempre stato fondamentale, è sempre stato veicolo di comunicazione, punto di apertura verso l’altro, oggi invece tutto questo sembra essere dispensato».

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«Quante architetture folli, quanti spazi non fruibili incontriamo oggi? Le città hanno una propria autonomia indipendente dall’uomo, l’ottanta percento delle costruzioni sono state fondate solo per ammassare gente. Il corpo sta diventando un qualcosa che si vive virtualmente, con il web non c’è più bisogno di incontrarci, vivere gli spazi, toccare l’altro, parlarci; liberi da ogni contatto possiamo cambiare faccia e identità, sembra che stiamo diventando trasparenti».

E come si lega con i calchi?
«Le sculture provengono da questa riflessione. Ho cercato dei frammenti, qualcosa che nell’insieme presentasse una figura potenziale, e volevo che i frammenti avessero un vissuto. Questi lavori sono un appunto. Come bisogna ripensare il corpo oggi? Considerando che se cambia la valenza che ne abbiamo cambia anche il rapporto con il tempo vissuto?».

 

BIO

1984
Nasce il 30 luglio a Palermo

2011
Fonda e dirige insieme a Giuseppe Buzzotta L’A project, spazio indipendente e centro di ricerca per l’arte con sede a Palermo. Ha collaborato e curato diversi progetti artistici indipendenti

2012
Partecipa alla collettiva Les associationes libres un progetto della Dena Foundation for Contemporary Art, curato da Chiara Parisi and Nicola Setari

2014
È alla Fondazione per l’arte a Roma come residente e poi nella mostra Ah si va a Oriente curata da Daniela Bigi. Espone a Bruxelles nello spazio Komplot con la collettiva La vita rapita curata da Sonia Dermience

2016
Protagonista a Roma della mostra Dove nessuno va a Operativa Arte contemporanea

BOX
Dove nessuno va è il titolo della personale di Vincenzo Schillaci ospitata a maggio da Operativa arte contemporanea. Mai nome fu più appropriato. Nessuno si sposta da nessuna parte se incontra un muro, se incontra il mare, se scopre un confine. La riflessione sul margine dell’artista interroga lo spettatore sulla sua posizione fisica, sul suo posto nel mondo, e su cosa c’è superato il mare, lì, appunto, dove nessuno va. Quell’oltre diventa un dispositivo per immaginare e il confine da negazione diventa possibilità. Sculture e quadri in mostra nascono da queste ispirazioni che a una dimensione spaziale ne aggiungono una temporale esplicita nello stratificarsi delle tavole coperte di stucco e nel ricordo di una passata funzione nei calchi.