Intervista con The Cool Couple

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

È la fine degli anni Sessanta quando gli artisti Gilbert Prousch & George Passmore si conoscono alla St. Martin’s School of Art e decidono di abdicare ai loro cognomi nel nome di una comune indagine critica e ironica della società. Una cinquantina di anni dopo, simili circostanze e un’analisi affine portano Simone Santilli Niccolò Benetton alla stessa rinuncia identitaria. «Siamo un collettivo – spiega The Cool Couple – non è importante chi fa cosa». In chiamata Skype con i due, infatti, si fa fatica a distinguere con chiarezza chi stia parlando. «Simo è quello sveglio», ride Niccolò. Due accenti veneti si alternano nel rispondere in modo cadenzato alle domande. Un metodo rigoroso che fa eco alla progettualità che contraddistingue il loro lavoro: per ogni soggetto, dal più banale al più complesso, stesso peso e uguale trattamento. Così come per il formato: «Dopo l’ideazione, iniziamo una lunga fase di ricerca, in cui il tema viene sottoposto a una serie di verifiche e aggiustamenti, per poi arrivare alla scelta del medium. Questo aspetto è direttamente connesso alla destinazione, è un problema di semiotica, di comunicazione. Ci sono mille modi per raccontare una cosa».

Quindi è di questo che si tratta, raccontare una storia?
«Diciamo che la narratività nei nostri lavori è a volte più esplicita, a volte meno, ma non necessariamente legata al racconto di una storia. Passiamo da fatti apparentemente triviali a temi di geopolitica, senza porci troppi problemi. Anche nella scelta del medium, spaziamo tra fotografia, stampa 3D e video anche all’interno di uno stesso lavoro. Ci interessa tutto quello che ci succede intorno, come le persone interagiscono quotidianamente con le immagini di Internet, Facebook, Tumblr. Di solito partiamo da microtemi, casi specifici che diventano metafora per affrontare tutta una serie di problematiche».

In A kind of display, ad esempio, il tema della barba quali domande ha sollevato?
«Da un po’ ci stavamo interrogando sul perché dell’esplosione di questa tendenza. Abbiamo iniziato le nostre ricerche e scoperto che Istanbul è la capitale di trapianti di barba. Per la cultura turca il maschio adulto coincide con l’uomo barbuto e la chirurgia estetica svolge un ruolo fondamentale nel determinare uno status sociale. Abbiamo approfondito l’indagine rintracciando questa moda in diversi contesti culturali, dall’antichità a oggi. Negli Usa, per esempio, dopo il crollo delle torri gemelle, la barba era un tabù. Anche il frontman dei Metallica, per colpa della barba, è stato fermato durante un volo internazionale. Insomma, volevamo capire da dove venisse. Alla fine non ci siamo riusciti, perché, come tutte le mode, nascono esplodono e poi implodono in se stesse».

Nel portare avanti una ricerca, che equilibrio c’è tra reale e fittizio?
«Usando principalmente la fotografia, per forza prevale il reale, ma poi ragioniamo sulle modifiche che possiamo fare sull’immagine. Diciamo spesso di invidiare quegli artisti che partono da un dato completamente partorito dalla loro mente. Mantenere una certa fedeltà ci sembra corretto anche nei confronti dell’osservatore. Per innescare una riflessione, se il dato non è corretto, qualcosa viene a mancare. Mi contraddico se penso a The fuffy whipe case. Lì ci siamo inventati una storia che non esiste, una squadra di pulitori delle carlinghe degli aerei per la sicurezza nazionale, partendo da un racconto di un amico e poi cercando una finta fonte attendibile. In linea di massima potremmo descrivere il nostro lavoro dicendo che cerchiamo di sviluppare strategie per riattivare un dibattito, uno spazio politico. Mettere le persone di fronte a qualcosa che non vorrebbero vedere o vorrebbero dimenticare».

Come in Approximation to the west, il lavoro esposto nell’ultima edizione del festival Fotografia di Roma?
«Per questo progetto siamo partiti dal nostro interesse comune verso la Carnia, in Friuli. Ma non ci volevamo fermare a un lavoro di fotografia o di analisi paesaggistica. Di solito quello che indaghiamo è un paesaggio antropizzato, in relazione con le persone che lo abitano o delle disgrazie che l’hanno completamente modificato. Andando quindi a scavare nella storia di questa regione, abbiamo scoperto che durante la seconda guerra mondiale era diventata terra promessa per alcune decine di migliaia di cosacchi alleati con i nazisti. Così abbiamo scoperchiato un vaso di Pandora, portando alla luce una storia enorme che nessuno conosceva».

In genere c’è un po’ di riluttanza nel fare arte politica, nel prendere posizione. C’è il rischio che un progetto venga etichettato come noioso o che “non faccia figo”.
«Prendere posizione può essere problematico, ma non è sempre legato alla politica. Non ci consideriamo politicizzati, nel senso che non aderiamo a logiche di partito. Politico può essere anche il direttore del sito BuzzFeed Canada, Craig Silverman, che dice che il programma Ciao Darwin rappresenta la fine dell’umanità. Vuol dire stimolare la nascita di un approccio critico. Sul “che noia, non fa figo”, ne sappiamo qualcosa, con Approximation to the West ci siamo dovuti porre il problema. In questi casi l’estetica può essere molto utile. Cerchiamo di fare qualcosa di estetizzante ma coerente con il suo contenuto, anche se a volte ce ne freghiamo e facciamo delle cose che sono un cazzotto in un occhio. Si può sollevare un problema giocando con le dinamiche estetiche, come nel lavoro sui barboncini, Cool People Love Poodles».

Che c’entra la politica con i barboncini?
«Dopo che Berlusconi ha regalato Dudù alla sua compagna, le vendite di barboncini sono aumentate del 20 per cento. Volevamo parlare della figura di Silvio attraverso un fatto marginale che ha delle ricadute sulla scena politica. Avevamo anche iniziato un lavoro sulla copertura delle statue ai Musei Capitolini per la venuta a Roma del premier iraniano. Diciamo che l’Italia è un paese estremamente creativo da questo punto di vista. Succedono cose al limite della fantascienza che ne fanno un bacino ricco di spunti da raccontare».

Info: 
thecoolcouple.co.uk

BIO
1986
Il 17 gennaio nasce Niccolò Benetton ad Arzignano (VI)
1987
Il 9 gennaio nasce Simone Santilli a Portogruaro (VE)
2012
Dopo essersi incontrati al master in Fotografia e Visual Design alla Fondazione Forma di Milano, Niccolò e Simone formano The Cool Couple
2015
Il collettivo viene selezionato per il programma Plat(t)form del Fotomuseum Winterthur e vince il premio Graziadei. Inaugura la sua prima personale a Les Rencontres des Arles. Partecipa a Fotografia. Festival Internazionale di Roma, al Macro e inaugura la collettiva dei borsisti alla Fondazione Bevilacqua la Masa
2016
È in residenza a Careof, Milano. Tiene un corso nell’ambito della Summer School for Curatorial Studies XAC, Venezia

PROGETTI FUTURI
Per la prima volta, The Cool Couple sta lavorando un progetto partendo da un macrotema. Al centro, la dicotomia tra invisibile e visibile: «Partiamo dalla tesi per cui la gestione del confine tra potere di stimolare l’ipervisibilità o di creare e manipolare quello che resta invisibile è il nuovo modo di esercitare il potere». Prendendo in esame una serie di casistiche legate alla filosofia e alla geopolitica, gli artisti partono da questioni legate ai semplici meccanismi della vista per arrivare a internet e agli attuali sistemi di sorveglianza. Il progetto è ancora in fase di ricerca e verrà sviluppato durante un corso internazionale di curatela che The Cool Couple terrà a Venezia.

LA COVER #106
[…] Un’estetica che rompe i ponti con la sobria eleganza degli ultimi numeri e ci trasporta brutalmente sullo schermo di un pc. L’immagine, dal titolo Wow.Whops.Sorry (a quote), è composta dalla sovrapposizione di più livelli: sul fondo, sfocata, si riconosce la foto di un gattino in un contesto vagamente bucolico; in primo piano, in una risoluzione più nitida, una miriade di teste e mezzi busti di gatti scontornati, stretchati, mutilati, deformati nelle loro sembianze. Lo spunto per l’opera, così come per il loro lavoro, il duo di artisti lo trova in quel bacino inesauribile di immagini che è Internet, in un’era in cui essere offline vuol dire non essere nessuno. Non è un caso che Wow.Whops.Sorry sia una frase estrapolata direttamente da The Age of Earthquakes, manuale scritto da Basar, Coupland e Obrist, che solleva una serie di questioni legate al nostro “estremo presente”. Per la spiegazione completa, clicca qui.