Intervista con David Droubaix

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

Il nuovo millennio segna l’avvento di un’epoca iconoclasta, appare come un paradosso, eppure la sovrabbondanza di immagini a cui siamo quotidianamente sottoposti reca in sé i segni di una perdita di capacità d’attenzione e di fascinazione verso l’immagine. David Droubaix, artista di origine francese, porta avanti nel suo lavoro una ricerca dedita alla comprensione di cosa significhi degenerazione e alterità a livello visivo. Le immagini una volta cancellate o danneggiate, lasciano un vuoto, di quel vuoto l’artista si prende carico e inizia a concepire vie alternative di utilizzo e di fruizione.

Come tratti le immagini nel tuo lavoro?
«L’uso delle immagini è stato a lungo oggetto ricorrente nel mio lavoro, anche se ultimamente ho allargato la mia ricerca ai documenti in generale. Ciò che mi interessa di più è il contesto che esse generano. Suppongo che un’immagine danneggiata o cancellata lasci un posto vuoto. Il suo senso originario scompare e lascia spazio a un’altra interpretazione. Come artista visivo, sono interessato a queste lacune, queste carenze della catena di informazioni, opero per mettere in discussione le nostre rappresentazioni politiche e sociali».

Internet e la televisione hanno contribuito a inflazionare l’utilizzo delle immagini.
«Raccogliamo dati che siamo in grado di comunicare più rapidamente con i social network, senza sapere se il loro contenuto è veritiero. Ciò che è in gioco è la velocità con cui le informazioni vengono trasmesse ma anche la velocità con cui i contenuti diventano illeggibili o vengono persi, tutto ciò è reso obsoleto dai progressi tecnologici. Nel 2011 mi sono interessato ai problemi causati dalla retro compatibilità: il Digital Dark Age. Nel prossimo futuro probabilmente non potremmo più leggere i dati registrati qualche anno prima in un certo formato. È interessante sapere che la distribuzione delle nostre immagini, foto, testi e pellicole, dipendono dalla vita dei nostri supporti tecnologici. La loro sopravvivenza non è solo una questione di progresso tecnologico si tratta della misura del tempo e della sua obsolescenza».

Che cosa significa nel tuo lavoro investigare la degradazione e l’alterazione delle immagini?
«Ho raggruppato le manipolazioni sotto i termini di alterazione e degrado. L’alterazione è un processo volontario di trasformazione in favore della nascita di un nuovo stato. Nel senso etimologico del termine è nell’altro, nella sua alterità. Al contrario degradazione implica privazione. Letteralmente significa degradare, privare qualcosa del suo status. Quello che distingue i due concetti è il desiderio di dare un altro significato a qualcosa. Dal punto di vista scientifico, trasformare l’immagine per renderla esattamente ciò che volevamo, equivale a contraddire la sua sostanza, esattamente ciò che spiega Georges Didi-Huberman nel suo lavoro, Immagini malgrado tutto, con un esempio di quattro fotografie scattate clandestinamente nel 1944 da un detenuto nel campo di Auschwitz-Birkenau. Il libro è stato molto criticato a seguito della sua pubblicazione, questo ci ricorda che le diverse generazioni hanno posizioni differenti di fronte le immagini».

Cosa significa contrastare la degradazione?
«La mia intenzione non è trovare il significato originale di un documento, non è combattere contro le manipolazioni, è una guerra persa, ma bisogna rimanere vigili perché la modifica dell’immagine gestisce il suo recettore. Si entra in punta di piedi in un campo politico, è in questo senso che l’uso di immagini mi ha permesso di prendere un percorso diverso, quello della realtà e dell’irrealtà della storia. Come si fa a preferire la finzione della realtà per la realtà stessa? È una questione importante nella nostra era dove molti propongono visioni del mondo alternative. Anche se possono non sembrare attraenti, dobbiamo sottometterci ai fatti. Il pericolo sarebbe quello di cadere in un percorso che ci porterebbe a giustificare le teorie della cospirazione e a soccombere nella paranoia».

Siamo vittime o carnefici di questo flusso iconografico?
«Si tratta di determinare il nostro atteggiamento di fronte alle immagini. Non dobbiamo cadere in una forma di iconoclastia. Se le guardiamo tanto è perché vediamo in loro un potere. L’immagine non produce nessuna prova, nessuna verità, dice il filosofo Marie-José Mondzain. Questa domanda solleva una questione di fede. Alcuni documenti si mescolano così bene che il pubblico si chiede: da dove nasce la storia, dove inizia la finzione? Paul Valéry ha scritto in uno dei suoi Cahiers che la miscela tra vero e falso è molto più tossica del falso puro. Alcune teorie sono pericolose perché si basano sul sentito dire: una macchina per fare nemici. Incoraggiano mobilitazione presentandola come presunta azione. La stessa terminologia utilizzata per descrivere queste teorie è sbagliata. La teoria della cospirazione è un termine impreciso, evoca una terminologia scientifica, ma queste teorie non si basano sulla scienza ma su interpretazioni che vengono a formare un insieme».

BIO
1985
Nasce il 7 febbraio in Francia

2009
Completa il Master in pratica e teoria delle arti contemporanee al Thierry De Duve di Lille

2011
È residente al Marfa program for art and research in Texas, Usa

2014
È residente nell’Atelier Wicar di Roma con il patrocinio dell’Institut Français

2015
Viene presentato al pubblico il suo progetto Les Heures, Le Village, Site d’expérimentation Artistique, sotto la curatela di David Chevrier al Bazouges-La-Pérouse

 

Info: http://daviddroubaix.com

PROGETTI
Nel 2016 e nel 2017 David Droubaix parteciperà a diverse mostre in Francia e in Belgio le cui sedi espositive non sono però ancora definite. Attualmente l’artista collabora con diverse università al fine di proseguire le sue ricerche incentrate nel campo della psicologia e della sociologia. Le ricerche hanno un valore espressamente scientifico e aiuteranno l’artista ad alimentare il suo lavoro visuale.