Quando l’arte è U.S.A e getta

Formello (RM)

Noti come subway drawings, i disegni a gessetto che Keith Haring realizza all’inizio degli Anni Ottanta nella metropolitana di New York, sui fogli neri utilizzati per coprire le affissioni pubblicitarie scadute, sono quanto di più emblematico (e poetico) abbiamo per illustrare la natura effimera della Street art. Un’arte che nasce, come i funghi, negli spazi negletti della città, quelli abbandonati e dismessi, o, come in questo caso, nei tempi morti (quelli tra una affissione e la successiva) del suo tam tam merceologico. Anche l’arte di Paolo Buggiani, fatta di performance e sculture di fuoco, è effimera. Quello che colpisce Buggiani, di questi disegnini, fragili e al tempo stesso infestanti – che raccontano, con uno stile che presto sarà celebrato su scala planetaria, un mondo dominato dal denaro e dai media, e minacciato dall’apocalissi termonucleare – è l’enigma che sembrano custodire. Un codice per iniziati, un nuovo e strano alfabeto, in cui l’artista italiano si riconosce, e che fa suo preservandone e collezionandone i frammenti che riesce a salvare, pezzi di una mappa che a lui, nuovo Teseo catapultato in questo frenetico dedalo urbano d’oltreoceano, può parlare. È difficile – messi gli uni davanti agli altri, come nella mostra che si inaugura sabato 30 gennaio (ore 17.30) alla Sala Orsini di Palazzo Chigi a Formello – non ritrovare analogie tra gli angeli disegnati da Haring e l’Icaro di Paolo Buggiani, o non intravedere negli uomini con la testa di cane che danzano intorno al fuoco dei minotauri in potenza.

Tu non nasci artista urbano… è stata New York a farti scoprire l’amore per città? «Già dal primo soggiorno a New York che durò dal ‘62 al ‘68 avevo capito che la pittura su tela mi stava stretta. Nel 63′, alla Paul Bianchini Gallery avevo esposto quadri di legno, alcuni con inserti raccolti tra le macerie delle case in rovina e altri ispirati ai segnali stradali con frecce direzionali e lampadine intermittenti. Il mio studio ad un certo punto era diventato la ”strada”. È di questo periodo l’inizio della ”ricerca sul tempo e lo spazio che lo contiene”: Ruth Ansel nel cubo di spago fotografato nella Baia di Fire Island del ’65 e i plexy con le impronte nello spazio di una posizione-attimo del ’66. Nel ’72 con una palla di fuoco lanciata verso l’alto cerco di rimettere il sole nel cielo dopo il tramonto, inizio una serie di ”dipinti sulla realtà” realizzati su lastre di plexiglas interposti tra me e il paesaggio e dopo un’assenza durata dieci anni nel ’78 torno a New York per presentare la mia ”arte indossabile”, una serie di 200 tute dipinte a mano grazie alle quali l’uomo-pittura attraversa la città».

Il tuo lavoro diventa sempre più effimero. «Sì. Quando l’inverno newyorkese diventa rigido e non mi permette di continuare i miei dipinti sulla realtà inizio una serie di dipinti con lo spray direttamente sulla neve, erano pitture di paesaggi che duravano quanto la durata della neve stessa che in quel momento rappresentava la mia tela».

Quella che hai incontrato era una New York in grande fermento. «La fine degli anni ‘70 e l’inizio dell’80 era un momento magico per la città: la Pop-art, l’arte concettuale e l’arte povera si erano ufficializzate ma anche affievolite. Nelle strade, nei parcheggi e su i treni della metropolitana sbocciavano i graffiti che dai quartieri neri e ispanici invadevano anche l’East Village e il quartiere di Soho dove avevo affittato il mio loft. L’utilizzo del tessuto urbano come spazio di libera comunicazione fu un’intuizione dei primi writers che permise la nascita della Street art. Downtown Manhattan si riempiva di immagini libere da qualsiasi controllo. Nel ’79 Barbara Kruger affiggeva i suoi manifesti simili alla pubblicità, ma con messaggi molto critici nei confronti delle abitudini borghesi. Jenny Holzer scriveva: ”Things are so urgent now that suicide is almost obsolete” sui bidoni della spazzatura, Ken Hiratsuka scolpiva i suoi pittogrammi sui marciapiedi, Richard Hambleton dipingeva nelle strade di Soho le sue ombre nere sul modello di quelle lasciate sui muri di Hiroshima dall’esplosione dell’atomica. David Finn realizzava le sue installazioni di uomini incatenati con i sacchi dell’ immondizia, Linus Coraggio alle fermate degli autobus, trasformava le segnaletiche in sculture contro la guerra, e, contemporaneamente ai disegni metropolitani di K. Haring, Les Levine lasciava messaggi dentro gli spazi pubblicitari della metro con le foto di immigranti e la scritta “we are not afraid”. La strada divenne il punto di incontro di chi non aspettava il placet delle gallerie per lavorare. Le idee viaggiavano libere nella metropoli. Intanto, con l’accordo di alcuni critici e riviste, le gallerie ufficiali inventavano la Transavanguardia e con l’aiuto delle aste tirarono su i prezzi da 6.000 a 60.000, a 300.000… ma dal punto di vista artistico-innovativo restarono dei topolini a sfogliare Chagall, Savinio e gli Espressionisti Tedeschi».

Tu a Manhattan hai ritrovato Creta. «Sì, Manhattan era per me come un moderno labirinto, dove l’arte era scappata dalle quattro mura, della galleria, del museo. Mi sono costruito un’armatura con la testa di toro, con criniera e spada di fuoco: ero il Minotauro. In mezzo al traffico i pattini mi hanno aiutato nel movimento fluido e con una vela incendiata ero più vicino al volo di Icaro».

Quando hai scoperto K.Haring? «Durante l’inverno dell’80 ero costretto a prendere più spesso la metropolitana e cominciai a notare i primi disegni in gessetto bianco sulle carte nere che azzeravano i manifesti scaduti. Attratto da quella segnaletica semplice ma carica di messaggi iniziai a fotografarli. Un giorno nella stazione tra Broadway e Lafayette vidi degli operai con i raschietti che rimuovevano i poster per metterci quelli nuovi. Mi fece una certa impressione vedere quei disegni stappati e buttati via. Fu allora che chiesi se potevo raccoglierli, non sapevo ancora di chi fossero ma da quel giorno cominciai a salvarne uno per ogni nuova serie che appariva fino al ’82, quando Haring fece la prima mostra che lo rese famoso. Nel frattempo avevo conoscuto Keith Haring e lo avevo informato di aver salvato una buona parte dei suoi ideogrammi col gesso dai cassonetti della spazzatura. Eravamo diventati amici, anche lui apprezzava il mio lavoro e avendo visto il poster del pattinatore con la vela mi fece un ritratto come uomo volante».

Un consiglio ai giovani artisti che si cimentano oggi con la città. «Ai giovani della Street art direi di proseguire nella loro ricerca e non confonderla mai con la bravura tecnica. Il rischio è quello di diventare artigiani dell’arte».

Una domanda, quest’ultima, dovuta al maestro Buggiani, visto che con questa mostra si apre anche il ciclo di laboratori promossi dal DIF, in collaborazione con Rufa Rome University of Fine Arts, La classe non è acqua, dedicati a Street art e blitz urbani. Tag, writing, stencil-graffiti, pitture su muro, anamorfosi, collage, poster art, scultura, installazione e performance, incursioni: queste le materie previste da questo corso sui generis. A salire in cattedra 11 indiscussi protagonisti dell’odierna arte di strada: Rub Kandy, il collettivo Guerrilla Spam, Diamond, Lucamaleonte, Iginio de Luca, omino71, Nicola Alessandrini e Lisa Gelli, Nemo’s, Alessandro Bulgini, Diavù e Veronica Montanino, che da anni realizza installazioni ambientali e che per il museo diffuso di Formello customizzerà lo scuolabus.