Michele Spanghero

Roma

Se è vero che il silenzio non esiste significa che c’è sempre qualcosa da sentire. Per strada, in un bosco, in casa, in metro, in una piazza, sott’acqua, in un teatro, anche vuoto. Perché quello che fa Michele Spanghero è questo: registrare, come dice lui, la voce del teatro e per farla sentire, per non sentire nient’altro, il teatro deve essere vuoto. Sopra al palco punta i microfoni contro le poltrone a registrare quello che comunemente definiremmo il nulla.

Dal silenzio come arriva un suono? «Il silenzio, lo sappiamo, non esiste. Se solo esistesse, questo progetto non avrebbe mai visto luce. Per catturare un suono nell’apparente silenzio della sala di un teatro utilizzo una tecnica che deriva dal compositore Alvin Lucier. Con due microfoni al centro della platea registro il silenzio e dal palcoscenico riproduco il suono registrato nella sala. Ripetendo l’operazione più volte ottengo una stratificazione di silenzi, reali e riprodotti, dai quali viene fuori un suono. A ogni registrazione, il silenzio iniziale prende sempre più colore. La registrazione si conclude quando il silenzio diventa suono, quando il suono riempie il vuoto, quando il vuoto è sommerso dalla voce del teatro».

Hai presentato al Talent Prize 2015 la voce del teatro in una scultura: Echea. «Echea è una modernizzazione dei risuonatori di Helmholtz, scienziato tedesco che ha studiato come  un corpo cavo può fungere da filtro acustico, e trae ispirazione dalle anfore usate negli anfiteatri descritte da Vitruvio. È una scultura che riprende i dettami del minimalismo al quale mi ispiro. Con questa forma e la sua storia ho cercato di dare un contenitore alle registrazioni effettuate nei teatri che vengono riprodotte al suo interno attraverso un altoparlante. Nel mio lavoro cerco sempre una risposta alla domanda su quale debba essere il rapporto tra forma e suono».

E quale deve essere? «Mi chiedo sempre come prima cosa in che modo fondere la forma al suono invece che creare prima il suono e dargli poi una forma. Cerco un timbro scultoreo, monolitico e quasi sempre i miei lavori hanno onde costanti, dei drones. Escludo la composizione per non creare aspettative nell’ascoltatore su un’evoluzione di tipo musicale del materiale. Non c’è principio e non c’è fine. Il suono per me ha senso solo se porta significato alla scultura. Deve essere elemento essenziale all’opera e non un orpello. Nessuno mi ha obbligato a fare delle sculture che suonano, se devono suonare tanto vale che abbiano una ragione per farlo. Altrimenti faccio un lavoro soltanto acustico o visivo».

La forma ha pari importanza del suono quindi. «I due nascono in simbiosi, penso che i miei pezzi potrebbero piacere anche se non suonassero, ma non avrebbero senso. Un mio lavoro in una mostra di sound art risulterebbe strano perché ha una componente estetica classica molto presente, motivo per cui mi permetto di dialogare anche con l’arte tout court. Il mio rapporto con la sound art è espresso in un lavoro che ho fatto con intento programmatico. What You See Ain’t What You Get è una scultura di altoparlanti, elementi base della sound art, che e vibrano e suonano ma non si sentono. Lo scopo è sottolineare l’aspetto estetico trasformando il lavoro in una scultura cinetica. A pensarci bene quasi tutti i miei lavori sono anti acustici».

Cioè? «Spesso chiudo il suono all’interno di sculture, lo intrappolo, non lo lascio uscire fuori liberamente. Quando qualcuno vuole far sentire delle registrazioni, certo non le chiude in 500 kg di ferro come ho fatto in Q. A me interessa la scultura quando è vuota e diventa una membrana che separa lo spazio esterno dallo spazio interno. Quello che cerco è come il suono, la pressione acustica, riesce a modificare il volume interno e di conseguenza come questo processo interno alla scultura, venga percepito all’esterno».

I lavori Q e Audible Forms sono in questo senso degli ottimi esempi. «La scultura Q è una sfera da mezza tonnellata di ferro con un altoparlante da 400 watt interno. Il  volume è elevato ma quello che si percepisce è poco, è solo ciò che da dentro traspare all’esterno. Poggiando una mano sulla sfera la si sentirebbe vibrare, effetto naturale che un volume così alto chiuso all’interno produce all’esterno. Simile è il discorso per Audible forms, un site specific realizzato per il Mart. Sfruttando il vuoto interno del gruppo statuario di gesso realizzato da Andrea Malafatti, ho registrato come il suono esterno della sala veniva percepito all’interno dei gessi. Un suono, un calco sonoro, che poi ho riprodotto nella stessa stanza delle sculture».

Echea anche potrebbe essere un calco sonoro? «Il principio è quello, per il Mart è forse più consono perché ho lavorato con delle statue dove c’è già l’idea di un calco ma a ben guardare, potrebbe essere la voce della statua, come in Echea è quella del teatro. Per entrambi sono partito dal silenzio per poi arrivare a un suono».

PROGETTI
Prosegue la ricerca sugli spazi teatrali italiani con Monologues. Progetto fotografico parallelo a Echea nel quale l’artista si impersonifica nei microfoni sul palco utilizzati per catturare e ascoltare la voce del teatro, il suo monologo. Il lavoro verrà esposto al palazzo Reale di Napoli e al Zuecca Project Space di Venezia; partecipa al concorso internazionale Premio In Sesto; sta lavorando per un’installazione sonora per il museo Marino Marini di Firenze. Info: www.michelespanghero.com

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