Una fotografa ritrovata

Per la prima volta a Milano arrivano gli scatti di una favolosa artista, Vivian Maier, rimasta pressoché sconosciuta ai più fino a quando un sagace agente immobiliare, John Maloof, nel 2007 acquista durante un’asta parte del suo archivio; capisce subito il valore dell’acquisto e da quel momento non smetterà di cercare materiale riguardante questa misteriosa fotografa, arrivando ad archiviare oltre 150.000 negativi e 3.000 stampe. Tata di mestiere, ma fotografa per vocazione, Vivian in vita non ha mai mostrato le sue fotografie e non ha mai realizzato mostre personali, ma ha scritto, attraverso la pellicola della sua Rolleiflex, diari visivi così profondi della realtà urbana da lei vissuta, e conosciuta, da poter essere letti oggi con un occhio rivolto alla nostra contemporaneità. Scrive Marvin Heifermann nell’introduzione al catalogo della mostra: “Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi”. Prima street photographer a tutti gli effetti, al posto delle pagine e della penna, Maier usava l’occhio fotografico e archiviava attimi fugaci di quotidiano sia con ironia e benevolenza, per i soggetti caratteristici dei sobborghi metropolitani, che con spietato cinismo quando si rivolgeva all’alta borghesia. La mostra presentata da Forma Meravigli a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro raccoglie, nella sua totalità, 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super 8; le immagini sono raggruppate per assonanze e temi ricorrenti, come la strada, l’infanzia, i ritratti, sperimentalismo formale (evidente nelle pellicole 35 mm che inizia ad usare a partire dagli anni ’60) e gli autoritratti.

Chicago, New York, San Francisco, l’Oceano Pacifico, i neri e i bianchi, i ricchi e i poveri, i giovani e i vecchi, Vivian Maier sembrava fotografare per se stessa, per la necessità di trovare un proprio posto nel mondo e sembrava considerare la strada come una sorta di palcoscenico da scrutare con una certa distanza, come lo spazio che divide il pubblico dall’attore in scena. Questo senso del distacco emerge prepotentemente nei numerosi autoritratti presenti, che mostrano la Maier sempre attraverso una barriera: ritratti della sua ombra, ritratti specchiati e riflessi nel vetro che rendono la figura distorta, frammentata o moltiplicata all’infinito. Nei ritratti della gente della strada, invece, a partire dagli anni ’50 fino alle fotografie a colori, si avverte un progressivo asciugarsi dei suoi interessi. I volti delle signore dell’Upper East Side sfuggenti e bellissime, i sorrisi sdentati delle prostitute senza scarpe, le cene a lume di candela, i viaggi mano nella mano nel parco o sul battello, i barboni disperati di Brooklyn via via si purificano per finire ad essere rappresentati in dettagli secchi e netti, quasi giochi sperimentali sul colore e la sua giustapposizione. Se prima il volto era la parte che identificava un tutto, la metropoli in rapido cambiamento, ora il dettaglio cromatico esprime la vera essenza del tutto, l’uomo, assente. Questa svolta coincide anche con il cambiamento di vita di Vivian Maier: smessi i panni della governante “girovaga” e austera, si trova sempre più sola e quindi le vedute si restringono, si dissolvono, si fanno più minute. La strada non c’è più, nemmeno negli unici quattro scatti dal soggetto puramente architettonico. Una fotografa dalla presenza discreta, ma dall’occhio acuto, una ricchezza per l’arte fotografica e una gioia, per noi, poterci scoprire un po’ di più grazie a lei.

VIVIAN MAIER Una fotografa ritrovata, Fino al 31 gennaio, Forma Meravigli, Milano

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