Ho fatto bene ad andare a Djibloho

Djibloho

Quella che sto per raccontarvi è un’incredibile storia tropicale. Una storia vera, ubicabile a metà strada tra il realismo magico di Gabriel Garcia Marquez e il Fitzcarraldo di Werner Herzog. Ma partiamo dall’inizio. Con pochi giorni di preavviso sono stato invitato a partecipare ad ”un evento storico”: la nascita di Djibloho, la nuova capitale della Guinea Equatoriale. Chi mi invitava? Il Presidente della Piccini, la multinazionale italiana con base a Perugia che sta costruendo in mezz’Africa. Con lui ancora al telefono ho aperto google maps è in diretta ho detto ”sì, sto arrivando”. Djibloho mi era apparsa sul tablet in tutta la sua essenzialità: quattro grandi strade nel bel mezzo di una meravigliosa quanto inestricabile foresta pluviale africana. Nient’altro. Imperdibile, ho pensato. E così pronti via: quattro tappe in aereo (Roma, Madrid, Malabò, Bata) poi 150 chilometri di foresta. Ed è proprio da Bata che ho cominciato a pensare a Fitzcarraldo, alle sue fatiche di Sisifo e al suo romantico desiderio di portare la lirica ed Enrico Caruso nel cuore della foresta. Quell’autostrada enorme, perfetta e vuota, che vuole rendere moderno e connesso un Paese ricco (per il petrolio scoperto da poco) ma ancora in via di sviluppo. Una via di comunicazione efficace che si interseca con altre, e altre ancora, come se fosse un sistema arterioso che dovrà portare linfa e sangue (leggi cultura e sviluppo) a tutti i villaggi dell’entroterra.
Non è questo un sogno romantico come era quello del vecchio Fitz? Poi finalmente arrivo a Djibloho. Strade modernissime, curate, che disegnano i confini di quella che sarà una città ma che oggi è appunto soltanto un ”abbozzo”. Non vedo altro che pochi palazzi circondati da un muro di verde. Mi aspetto di scorgere Kinski da un momento all’altro, ad un tratto invece dietro una curva spunta il Grand Hotel Djibloho. Wow! Una vera sorpresa: campi da golf, prati curati, ville elegantissime e nel bel mezzo lui: un grand’albergo 5 stelle nuovo di pacca.
Ci sono tutti i nessi e i connessi: piscine coperte e scoperte, spa, gym, tre ristoranti, discoteca, sala congressi. Non manca niente per attrarre il turista. C’è perfino una clinica estetica per trapianti di capelli o ritoccatine varie. La sicurezza poi è una vera sciccheria, nel fiume che circonda l’Hotel ci sono i coccodrilli (liberi e belli!). Ed è lì che spunta l’architetto capo Hernando Suarez. Se non fosse che lui e il suo studio, gestito a Roma con i figli, hanno progettato immobili di grande pregio poi costruiti in mezzo mondo (tra questi lo Juventus Stadium), penseresti che è un personaggio mandato lì appunto da Garcia Marquez. L’architetto Hernando è colombiano come il grande Gabo e come molti personaggi creati dal Nobel per la letteratura ha un modo meraviglioso di raccontarti le cose della vita e del lavoro. Passo con lui molto tempo. Girando mi rivela i segreti e le meraviglie del posto e del Grand Hotel Djibloho. Di come è stato costruito (tutto made in Italy!), delle soluzioni architettoniche prescelte, di come nel cantiere ad un certo punto contarono addetti provenienti da 52 Paesi diversi. Mi parla moltissimo della sua adorata madre che vive ancora in Colombia e ha 104 anni (!!!), della moglie bibliotecaria, della figlia che si è sposata in rosso, del figlio Daniele, raffinato muscista, dei suoi bellissimi nipoti (mostra anche le foto) e di quanto sia ”fico” lavorare con i due figli architetti Stefano ed Eloy.

Parliamo molto di Eritrea, Guinea e altri mondi. I suoi occhi e anche la sua barba bianca s’illuminano spesso. Misura fieramente le parole quando mi racconta che la Piccini mentre costruiva l’Hotel ha finanziato una scuola per artisti locali. Gli ha dato soldi, materiali, spazi e maestri chiedendo loro di produrre secondo la tradizione africana. Tutto il loro lavoro è oggi esposto dentro l’albergo. E sono opere bellissime. Ho fatto bene ad andare a Djibloho. Ho visto un Paese a me sconosciuto che sta cambiando tentando di portare sviluppo e opportunità anche nelle zone più complesse. Ho visto 19, tra capi di Stato e primi ministri, celebrare la nuova capitale e la spinta al cambiamento di una piccola nazione. Non ho visto né politici né giornalisti europei. E questo la dice lunga. Ho scoperto un’azienda come la Piccini, che in Italia forse conoscono in pochi ma che in tutto il continente è ammirata e ricercata. Ho visto che anche nelle grandi difficoltà, da Ebola alle libertà civili e ai processi democratici, questa parte d’Africa ha voglia di fare, di crescere e di cambiare. Ho fatto bene ad andare a Djibloho.