Masanum, Luigi Grassi

La fotografia, ridotta all’osso, è un risultato prodotto dalla luce e dal tempo. Dalle prime prove di Niépce e Dauguerre e giù fino al digitale, non è mai stata nient’altro. Se il rapporto luminoso è scritto nel nome della tecnica, letteralmente scrivere con la luce, quello temporale è più complesso e va dal tempo che serve per fare una fotografia (tempo d’esposizione), al tempo che viene bloccato nello scatto che diventa ricordo. È in quest’ultima sfumatura temporale che dobbiamo inserire anche il percorso di Luigi Grassi. Dopo Sudari, il fotografo visita un paese quasi abbandonato alle porte di Campobasso, Limosano. Masanum, è l’antico nome del villaggio, nonché il titolo della nuova serie che ne deriva. È un racconto per immagini su un paese che nel suo essere bloccato nel tempo, svuotato dall’emigrazione dal 1956, è già una fotografia di se stesso.

Come per rispettare il silenzio antico, Grassi scegli di fotografare in pellicola. Non ci sono persone e non ci sono esterni, è una storia chiusa in un numero imprecisato di muri. Muri che diventano pareti che diventano fotografie quasi informali dove al sordo cemento fanno contrasto mobili e carte da parati scollate. Nell’immobilità di Masanum l’autore non ha fretta di bloccare l’attimo bressoniano e insiste sulla chimica degli elementi trovando una composizione densa e accogliente sottolineata dalle delicate sfumature di grigi. Il lavoro si presenta, così, come l’altra faccia di Sudari. Gli esterni di quest’ultimo sono esclusi nel nuovo lavoro, sostituiti da una raccolta quasi claustrofobica di interni. La composizione rigida e geometrica cede il passo a una rappresentazione più sciolta e partecipata che tradisce un coinvolgimento emotivo. E come a retrocedere nella storia, dal digitale di Sudari, Grassi passa ai sali d’argento di Masanum. Info: www.luigigrassi.com