Panarelli e Hanzelewicz, 6 di sabbia

Roma

«So già che vi arrabbierete ma devo dirvelo lo stesso: siamo arrivati alla Soglia (della Stanza)! È il momento più importante della vostra vita! Come già vi ho detto, qui si compirà il vostro desiderio più segreto, quello più sincero, quello più sofferto. Non bisogna dire niente… basterà concentrarsi e cercare di ricordare tutta la vita: quando l’uomo pensa al passato, diventa più buono ma l’importante è solo… Credere! Ora potete andare». Andrej Arsenevič Tarkovskij – Stalker, 1979.
Siamo giunti all’ultimo capitolo, o meglio, al contorto incipit di un epilogo, di 6 di sabbia. La sabbia oramai straziata, inerme, corrosa, disgregata e intaccata giunge nei meandri oscuri della memoria, di un tempo che invano chiede ancora la sua ultima resa, nella speranza di godere di un ricordo lucido e concreto. Andrea Panarelli riflette sull’inaccessibilità di uno spazio, che sia mentale o fisico poco importa. La miniatura di una stanza, scavata sotto un rilievo di materia silicea, diviene emblema di una costrizione corporea ed intellettiva. Una luce nel fondo sottolinea l’inconsistenza del reale: cumoli di sabbia invadono la camera, materia accatastata, granelli che ricordano le fattezze di una clessidra, il peso del tempo che giunge infine ad incarnarsi nello stadio fisico di un luogo immaginario, laddove anche il sogno più folle diviene reale. Fa troppo caldo, l’afa oppressiva occulta ogni slancio razionale, si impossessa dell’atmosfera e i cumuli di sabbia interpretano, all’improvviso, il senso di soffocamento che viviamo in questa stagione poco democratica ma affine a vivere un’alterità agognata.

La sensazione claustrofobica viene trasmessa dal soggetto rappresentato all’osservatore, la ricerca della luce trova la sua più alta ambizione nel cogliere, sulla punta del rilievo, una piccola e innocente miniatura di una sedia. Miraggio impossibile, sfida eroica da sostenere ”sotto il sole cocente”, l’ardimentosa impresa viene accantonata miserabilmente, il deserto ha vinto la sua sfida, la siccità imprigiona ombre che non affiorano, slegati dal tempo e da una specifica misura dello spazio, lasciamo il nostro destino in balia di una ricerca, la quiete nel nascondersi, nello sfuggire da un chiarore composto da colori saturi, luce che non tollera compromessi, ma che espone ad ogni suo inappellabile richiamo. ”La claustrofobia venne inevitabilmente classificata tra le angosce più caratteristiche della vita nelle città moderne, esagerata ma tipica forma di una diffusa nevrastenia. Gilles de la Tourette la identificò come uno speciale tipo di vertigine nevrastenica, la vista è velata, tutto è grigio e plumbeo; il campo visivo è pieno di punti neri e macchie volanti, gli oggetti vicini e distanti sono confusi sullo stesso piano”.

Andrea Panarelli coglie la suggestione di uno spazio antropofobico, dove un’inconsistente combinazione di esperienze tangibili e mentali generano un disturbo della coscienza: l’implacabilità del tempo, l’oppressione della società moderna e le sue inevitabili configurazioni psicologiche determinano il flusso di un costante senso di smarrimento. Una stanza sotterranea, esclusa dalla realtà circostante, sembra il rifugio ideale per sottrarsi dalle nevrosi della contemporaneità, fa troppo caldo per uscire, il nascondiglio ideale resta in seno alla nostra mente. Nell’atto conclusivo ideato da Piotr Hanzelewicz, sono le parole il filo comune che accompagnano l’artista durante i giorni della sua presenza all’interno di Spazio Y. Un epilogo dedito a narrare un’archeologia di stratificazioni emozionali e culturali che hanno segnato il passaggio di ciascun artista coinvolto nel progetto 6 di sabbia. Hanzelewicz pone le basi di un confronto verbale, ciascun visitatore narra una storia secondo il proprio sentire, nessuna traccia tangibile documenta questo scambio, l’unica testimonianza diviene per l’appunto la sabbia, trait d’union focale di tutta la rassegna. Una busta viene assegnata e firmata dall’artista a prova della particolare sedimentazione che il materiale siliceo ha acquisito durante i mesi del progetto.

La soglia descritta da Tarkovskij in Stalker non è più una stanza dove pronunciare i propri desideri, ma si trasforma nella quintessenza di un esperimento formale, Hanzelewicz raccogliendo le cronache di ciascuna persona costruisce un ulteriore livello di sedimentazione, una geografia della memoria che acquisisce nelle parole singoli frammenti di identità. ”Gli sciamani di oggi sono gli artisti che, trasmutandosi nell’opera, facilitano il passaggio verso quell’altrove cui tendiamo. Gli sciamani di un tempo si agghindavano con mantelli, in cui le sembianze umane si mescolavano a quelle animali e divine, abiti come piume di pavone, code di ghepardo, scialli punteggiati di soli, lune, stelle e oggetti rituali per facilitare il contatto con lo spirito dei morti. Per gli sciamani d’oggi, gli abiti sono le parole e le immagini. Per capire chi stiamo diventando oggi, dobbiamo cercare non più solo dentro i confini corporei, riarticolando nuovi nessi tra il sociale, il biologico, il conscio e l’inconscio, l’umano e l’animale”. Un contatto performativo ma che contiene in sé un linguaggio univoco, attraverso le parole Hanzelewwicz indaga le soglie dell’inconscio, concepisce ed elabora i confini di “un mondo di apparenze”, laddove la locuzione verbale innesca un’inedita fenomenologia di intenti.

L’artista sciamano, attraverso il gesto della scrittura sulla sabbia, imprime la sua grafia sul materiale siliceo, estrapola dal racconto una parola, una frase, un ricordo che segna indissolubilmente il legame privilegiato con il narratore. I desideri si tramutano nella consapevolezza di ripensare lo spazio, le parole delineano relazioni e procedimenti connettivi in rapporto alla realtà circostante, l’artista entra in contatto con le espressioni emotive che affiorano da ciascun visitatore, impadronendosi dell’ambiente, riscrive ogni singola volta la possibilità di edificare architetture mentali, di coscienze in continua trasformazione. ”La parola ci contraddistingue come creature vive e pensanti. Il silenzio uccide, la parola crea. In principio era il verbo e il verbo era la vita. È questo il vangelo. Io parlo perché sono. Quando la mia gola sarà piena di terra, smetterò di parlare. Vogliono riempire la mia gola di terra? Si sbagliano. Tutti dobbiamo parlare. È per questo che la Natura ci ha fatto creature umane. Se restate in silenzio avrete riempito da soli la vostra bocca di terra”. La parola è un atto di condivisione, lo strumento più potente di trasmissione e testimonianza, la parola contiene in sé la forza del gesto creativo, in questo epilogo Hanzelewicz ha donato un nuovo senso alle parole, esplorando i possibili interstizi che si celano dietro un racconto, lasciando alla sabbia il ruolo privilegiato di raccogliere e collezionare le storie narrate, assumendo i connotati di una sostanza legata alla memoria e al tempo.

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