Intervista con Merri Cyr

Roma

Quando hai incontrato Jeff Buckley per la prima volta? Come è cominciato il vostro rapporto? «L’ho incontrato nell’autunno del ’92, quando fui incaricata di fotografarlo per Paper Magazine. Lo chiamai e ci incontrammo nel suo appartamento, dove feci alcuni scatti. Indossava una vecchia camicia di flanella e un cappello a cilindro, poi una strana giacca vintage di tessuto scozzese. Andammo fino al tetto per scattare. Mi sembrava divertito. Ricordo di aver fatto una battuta sul suo aspetto così sexy nel suo abito vintage spiegazzato. Mi colpì molto quando mi si avvicinò per strappare dei pelucchi dal mio maglione. Aveva un modo molto seducente di rapportarsi e creò subito un’atmosfera molto intima, ideale per fare delle foto. Facemmo alcuni scatti sulle scale e un paio nel corridoio. Non avevo mai ascoltato la sua musica, ma dopo averlo fotografato ebbi la sensazione che si trattasse di un grande artista, così decisi di andare al Sin-è, il locale dove suonava settimanalmente. Stampai alcune delle foto che avevamo fatto e le portai con me. Durante la sua interpretazione di Hallelujah dovetti trattenermi dal singhiozzare. Ero tremendamente commossa. Dopo il concerto andai fuori a fumare, lui arrivò e sembrò non riconoscermi. Gli andai incontro, sembrava sospettoso anche se l’avevo fotografato pochi giorni prima. Gli raccontai di quanto mi fosse piaciuto il concerto e gli mostrai le foto. Quando le vide fece un gran sorriso e disse ”Sono magnifiche”, saltandomi addosso per abbracciarmi e baciarmi gioiosamente. Mi chiese se poteva usarle per i volantini promozionali. Ecco come è cominciato il nostro rapporto».

Da lì è cominciata anche la tua carriera di fotografa di musicisti. Com’era Jeff rispetto agli altri con cui hai lavorato? «Con la maggior parte c’è stato solo un rapporto lavorativo. Jeff era uno che costruiva rapporti nel tempo e noi diventammo amici. Farsi fotografare gli era piaciuto particolarmente e questo non sempre accade. Ci fu un’atmosfera giocosa durante il nostro primo incontro, l’esperienza fu anche divertente. Quel feeling continuò. Era un vero scorpione (segno zodiacale) e il suo umore era costantemente mutevole, cosa che per le foto era fantastica (per l’amicizia un po’ meno). Non aveva paura di mostrarmi ogni suo aspetto, anche quando era incazzato o introverso non mi ha mai chiesto di smettere di scattare».

Oltre ai live al Sin-è e alle foto per Grace, hai seguito Jeff in tour. Come si preparava ai concerti? «Ho avuto la sensazione che Jeff avesse un diapason dentro di sé quando si trovava davanti a un pubblico per la prima volta. Riusciva a decifrare gli umori della gente e a porsi di conseguenza. Come performer si è sempre nutrito dell’energia che veniva dal pubblico. Ma il suo umore poteva cambiare presto. Era spesso ironico, a volte delicato, a volte graffiante. Era in grado di cambiare i toni da un momento all’altro. Amabile su e giù dal palco, ma anche emotivamente instabile».

Qual è la tua canzone o interpretazione preferita di Jeff? «Non saprei scegliere. Adoravo quando suonava dal vivo. Ho avuto la grande fortuna di seguirlo in tour e di ascoltarlo più volte per diversi concerti nella stessa giornata. Non eseguiva mai nello stesso modo la stessa canzone e fu un gran piacere ascoltare ogni volta interpretazioni diverse che mai nessuno si sarebbe aspettato».

Qual è il ricordo più bello che hai di Jeff? «That’s private».

Spesso si legge che Jeff fosse convinto di non avere molto tempo da vivere. Tu cosa ne pensi? «Sembrava che considerasse se stesso come una persona il cui destino fosse stato predeterminato dalla sua storia. Penso che la sua vita fosse basata su un’immagine archetipica. Era stato abbandonato dal padre prima di nascere. Lo aveva incontrato quand’era bambino una sola volta e nonostante ciò aveva ereditato i suoi doni, aveva intrapreso la sua stessa carriera. Intendo dire che il comportamento di Tim Buckley anche nei confronti di sua madre aveva profondamente scosso Jeff, che aveva studiato e imparato tutto ciò che c’era da sapere sul padre, nonostante sentisse sempre di essere stato rifiutato. Io ho avuto paura quando Jeff raggiunse i ventisette anni, età in cui il padre era morto di overdose».

Cosa ricordi di quel maledetto 29 maggio 1997? «Ricordo che qualcuno mi chiamò dalla Sony per dirmi che era stata denunciata la scomparsa di Jeff. La mia prima idea fu che si trattasse di uno scherzo e che si fosse nascosto da qualche parte. Chiamai la sua segreteria. Poi andai in moto da un nostro amico che mi lesse i tarocchi, confermandomi con la carta della morte che Jeff se n’era davvero andato. Mi sentii così vuota. Nelle settimane successive meditai con il libro dei morti tibetano, cercando di aiutarlo nel suo viaggio con le mie preghiere».

Tra le tue foto di Jeff ce n’è qualcuna che preferisci? «Sono molto legata a una foto in cui mi guarda con espressione amorevole. Eravamo in una drogheria e Jeff aveva in mano un biglietto di auguri per me. Naturalmente considero importante la foto della copertina di Grace, perché la scelse per rappresentare se stesso e la sua musica. La musica era tutto per Jeff».

Ed infine, cosa significa per te oggi Jeff Buckley? «È stato uno dei più grandi artisti che io abbia mai incontrato, mi sento felice e privilegiata di aver lavorato con lui e di averlo visto suonare e fare il suo lavoro. Quando un artista del suo calibro si apre in quel modo, tu non puoi fare altro che raccogliere la sfida e agire nel migliore dei modi. A livello spirituale, Jeff è stato come un dono che mi ha permesso di incanalare un’energia che credo provenisse da Dio. C’è una carta del mazzo dei tarocchi chiamata ”Il Mago”. Si vede l’immagine di un uomo in veste che protende le braccia verso il cielo, e il simbolo dell’infinito galleggia sopra la sua testa. L’energia dal cielo viene incanalata attraverso questa figura e si manifesta. Come performer io credo che Jeff sia stato in grado di trasmetterci questa sorta di energia divina e noi tutti ne abbiamo potuto beneficiare».