Elio Castellana, 6 di sabbia

”Oggi voglio ritirarmi e riposare nel mio silenzio interiore a cui chiedo ospitalità per un giorno intero. 25 luglio, sabato mattina, le nove. In me c’è silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole, che stancano perché non riescono a esprimere nulla. Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per poter trovare quelle poche che ci sono necessarie”. (Etty Hillesum).

Si innescano dei varchi indefinibili tra le parole, spazi concreti, reali che circoscrivono il silenzio, delineano l’area perimetrale di un’assenza, di un sentimento che dà origine al vuoto. Quelle lacune impercettibili tracciano gli interstizi della materia: tra due note esiste una pausa, tra due granelli di polvere, per quanto microscopici, esiste uno spazio, è un respiro continuo, è l’assenza che narra il respiro del mondo. Quali parole, gesti, atteggiamenti utilizziamo per narrare il dolore? Il dolore insegue la condiscendenza, la corteggia amabilmente, innescando un limite invalicabile di sopportazione, in quella fase quasi estatica e conflittuale inizia un processo di sopruso nei confronti della memoria, una lotta inerme contro il ricordo. L’installazione di Elio Castellana, In Nomine, rilegge in chiave simbolica la fisionomia espressiva di un’assenza, che al contempo, diviene, in maniera inesorabile, presenza fisica e tangibile. Il procedimento parte dalla descrizione rituale di un gesto, un segno materico, il calco delle mani della madre dell’artista che sbucano dalla sabbia come fossero un elemento vitale entro cui scorre il flusso linfatico di un culto sacro. Sacralità che permane in ogni emblema descrittivo che Castellana ha scelto nel suo assemblaggio: un cielo ripercorre le rappresentazioni trecentesche ad affresco di importanti cantieri decorativi come quello della giottesca cappella degli Scrovegni, l’uovo di struzzo, da cui si intravede una fiammella, simbolo di vita e perfezione divina, è tratto dalla famosa pala Montefeltro opera di Piero della Francesca, la sdraio al centro dell’installazione, è un ricordo d’infanzia delle giornate passate in spiaggia, ma anche metafora di un’attesa, laddove un cubo di ghiaccio lentamente si sta sciogliendo figurando al suo interno l’icona materna, simbolo escatologico di una scissione dell’immagine e della sua conseguente scomparsa.

Ogni senso è coinvolto nel lavoro di Castellana, la sonorizzazione affidata a un brano composto nel 1976 da Arvo Pärt completa l’impianto sensoriale dell’opera, in una esegesi trascendentale che immerge lo spettatore nel complesso allestimento che pone le sue radici nella dimensione teatrale assai vicina all’artista. Un discorso amoroso intorno al labile confine dell’assoluto, un intricato questionare attorno al concetto di morte, di scomparsa, di assenza che in realtà descrive in maniera lirica l’eterno ritorno di una memoria familiare, connessa strettamente all’evoluzione dell’identità, a un sostrato epidermico di affinità elettive, legami sanguigni che generano domande sulla nascita e sull’evoluzione di una fisionomia cognitiva di immedesimazione. ”Questo lavoro dell’artista, volto a cercare di scorgere sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos’altro, è esattamente inverso a quello che, in ogni istante, l’orgoglio, la passione, l’intelligenza, e anche l’abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nascondercele, le nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di vita. Insomma quest’arte così complessa è davvero la sola arte viva. Essa soltanto esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può osservare, le cui apparenze, che osserviamo, debbono venire tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica”. Proust nel Tempo Ritrovato percepisce la necessità di una traduzione espressiva delle nostre idiosincrasie quotidiane, una traduzione indispensabile per comprendere il mistero che circonda la nostra esistenza, Castellana riconosce questo processo speculativo e si adopera nel rintracciare un linguaggio che definisca la sacralità di un gesto, di uno sguardo, di un’attesa, nel nome della madre e dei suoi figli, di una discendenza che celebra e santifica il mistero dell’uomo.

Fino al 20 giugno; Spazio Y, via dei Quintili 144, Roma; info: spazioy.com