La Biennale alternativa

Biennale senza sosta, nulla al caso e moltissimi gli eventi che coinvolgono tutta la città lagunare, in modo particolare le collaterali sparse nei vari sestieri come a Cannareggio, dove è esposto il progetto Dancing makes me joyful. Infatti in concomitanza con la 56a edizione, l’artista Lena Liv e la danzatrice e coreografa Lindy Nsingo presentano fino al 15 agosto a palazzo Flangini, una mostra risultato di una lunga collaborazione di oltre un anno tra le due protagoniste. Quattro le installazioni multimediali e un un’opera a pastello di Lena Liv, mentre Lindy Nsingo ha dato vita in anteprima mondiale alla sua coreografia site-specific il 7 e l’8 maggio. Nello spazio della location anche due monitor, uno dedicato a raccontare il processo artistico di Liv durante le fasi di realizzazione del suo lavoro, l’altro per documentare la performance di Nsingo. A concludere questo particolare unione una serie di insegne al neon indicanti il titolo Dancing makes me joyful posizionate in diversi luoghi di Venezia. Un progetto molto articolato nato e nella primavera dello scorso anno, quando Liv organizzò un incontro con Nsingo a villa di Corliano in Toscana per esplorare i concetti di danza in quanto indagine dell’interazione reciproca tra il corpo in movimento, il mondo e gli esseri umani. «Lena Liv – afferma Angela Madesani, critica d’arte e conoscitrice attenta del lavoro dell’artista – attraverso materiali e linguaggi diversi esplora il concetto di danza come forma di pensiero. Il librarsi nello spazio della danzatrice è un superamento della gestualità quotidiana per giungere all’universalità dell’essere. Le nuove opere multimediali di Liv – continua – sono dei tentativi di esistenza, in cui il movimento sottolinea la relatività del tutto, in una dimensione di dubbio al quale non si può offrire risposta alcuna. Liv ha indotto un incontro di culture tra la giovane coreografa e danzatrice, originaria dello Zambia, quindi vissuta in Belgio e poi a Londra, e il luogo dove danza, il grande salone affrescato della Villa di Corliano. È un dialogo che porta all’ibridazione dei diversi elementi, per dare vita a qualcosa di diverso». Le opere di Liv sono presenti in tutto il mondo, recentemente il suo celebre Cathedrals for the Masses è stato esposto presso il Centro Pecci di Prato e al Museo d’arte di Tel Aviv in Israele. Negli anni Novanta, ha presentato una significativa personale al Marble Palace, Museo di Stato Russo di San Pietroburgo e una personale in Germania al Heidelberger Kunstverein, Heidelberg. Le collettive includono luoghi come il Museum moderner kunst, Stiftung Ludwig di Vienna.

Il nostro viaggio nel cuore della Serenissima continua toccando proprio Piazza San Marco, dove fino al 31 agosto, il Caffè Florian presenta la XIII edizione di Temporanea, le realtà possibili, con la mostra So, well go no more a roving dell’artista Qiu Zhijie curata da Stefano Stipitivich. Dopo grandi nomi come Bruno Ceccobelli, Mimmo Rotella, Gaetano Pesce, Omar Gallini, Pietro Ruffo o Arcangelo e Irene Andessner, l’ormai tradizionale appuntamento in uno dei luoghi più importanti di Venezia è raccontato della tecnica e delle caratteristiche uniche dell’artista cinese. La storia che si mescola con la città stessa, infatti è proprio all’interno dello storico locale che nel 1893 nacque l’idea grazie a Riccardo Selvatico e ad altri intellettuali veneziani, di organizzare la prima esposizione della città di Venezia, poi conosciuta come Biennale. Oggi il titolo della mostra è tratto da un poesia di Lord Byron scritta in una lettera nel periodo in cui visse in città indirizzata a Thomas Moore: ”Così non andremo più vagando”. Zhijie ha reinterpretato la Sala cinese del Caffè più antico al mondo dove possiamo osservare pareti, tavoli, soffitto, pavimento e sedie completamente rivestiti di specchi incisi con frasi di alcuni dei frequentatori più conosciuti del Florian. Protagonisti del calibro di Goldoni, Goethe, Dickens o lo stesso Byron. Le scritte sono rovesciate e quindi leggibili solo attraverso lo specchio, materiale scelto perché nato proprio a Venezia nel 1460 e rimasto nelle mani dei dogi per oltre cinquant’anni. E non solo la sala interna ma addirittura i tavoli del plateatico sono diventanti opere nella mani di Zhijie, tutti ricoperti di specchi con incise le famose frasi: una piacevole sorpresa per una sosta nel luogo dove tutto ha avuto inizio.

Tra le numerose nazioni presenti alla Biennale troviamo il Guatemala, a cura di Carlo Marraffa, Stefania Pieralice e Elise Wunderlich, presenta Sweet Death, una curiosa ed eccentrica esposizione alla Officina delle zattere. Il tema trae ispirazione dal libro di Mann, dal film di Visconti, dall’opera di Britten ma sopratutto affronta il concetto della morte-finitudine, vista nella società attuale come come decadenza, perdita di valore, annientamento dell’uomo, il tutto però espresso attraverso il linguaggio della gioia del colore con un approccio dolce e lezioso. Esemplificativo è lo scenario offerto dal cimitero di Chichicastenango, in Guatemala, dove le tombe sono coloratissime, i bambini giocano tra i loculi, i ragazzi si baciano e gli anziani ridono tra le lapidi. Ottimo lavoro anche per il gruppo Aes+f, presente ai Magazzini del sale grazie a Vetraria glass e A museum con il contributo di alcune importanti realtà russe: Triunph gallery, Energy group, Red fondazione e Vdnh. 001 Inverso mundus generosamente patrocinato da Blavatnik family fondazione e dall’argentina Faena art, il gruppo artistico intreccia fotografia, video, tecnologie digitali con le tradizionali tecniche di pittura e scultura. Il fine è quello di esplorare i valori e di conflitti della cultura globale. Un eccezionale video di 40 minuti dove il mondo concettuale, metafisico, fantastico e talvolta inquietante coinvolge il visitatore in un viaggio capace in pochi minuti di alterare al realtà nella coscienza di un sistema alternativo. 57 attori, provenienti da una decina di paesi al mondo, hanno partecipato alle riprese dando vita ad un opera dal sapore non comune. Iila, istituto italo-latino americano è ora mai da 43 anni alla Biennale e propone una grande istallazione sonora realizzata grazie al lavoro di artisti provenienti dai tutti i paesi membri dell’associazione.

Grazie al lavoro del curatore Alfons Hug e Alberto Sartiava l’allestimento rispecchia perfettamente il tema di quest’anno: Voci indigene, dove antichi idiomi sono riuniti in quella che può essere considerata una casa comune dell’arte. Un vera e propria riappropriazione del patrimonio culturale originario attraverso l’ascolto delle più profonde radici di realtà spesso dimenticate e inabissate nel quotidiano che non ha tempo per ciò che era ieri. Artisti ad esempio come Sofia medici e Laura Kaluza dall’Argentina, Adriana Barreto dal Brasile, a rappresentare l’Honduras troviamo Leonardo Gonzalez mentre Humberto Vélez da Panama, Raul Quintanilla dal Nicaragua o la partecipazione speciale di Ellen Slegers, artista tedesca legata all’America Latina. Con Paradiso Lussemburgo di Filip Mankiewicz a cura di Paul Ardenne, l’artista introduce il Granducato in un contesto internazionale dove si fondono varie nazionalità e culture per costruire l’identità del paese. L’installazione occupa tutte le sei sale del padiglione che si trova a Ca’ del Duca, la parte centrale della mostra è costituita dal film Viaggio al termine di un’identità, titolo legato al romanzo Viaggio al termine della notte di Céline del 1932. Allo stesso tempo il nome dell’esposizione rievoca il Paradiso di Dante e il film di Giuseppe Tornatore, Cinema Paradiso suggerendo anche l’idea di un paradiso fiscale. «Voglio dare forma – dice l’artista – a un nuovo mito lussemburghese contemporaneo attraverso film e spettacoli. Il padiglione ha l’atmosfera di un set cinematografico ed è un mix di laboratorio creativo e centro culturale con il suo programma di danza, performance, deejaying, lettura, architettura e musica».

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