Double Bind

A quattordici anni di distanza dal lavoro presentato alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra, Double Bind prende nuovamente vita nello spazio delle navate di HangarBicocca e si affianca ad altre opere rappresentative del percorso artistico dello scultore spagnolo Juan Muñoz, scomparso prematuramente nel 2001. Quindici lavori di dimensioni monumentali abitano lo spazio ex industriale dell’Hangar, creando scene stranianti e dal forte senso di isolamento e spaesamento, come piazze gremite di personaggi dal ghigno beffardo o interni famigliari seppur del tutto anonimi e inquietanti. Noto soprattutto per aver re introdotto la figura antropomorfa all’interno del dibattito scultoreo a partire dagli anni ’80, Muñoz ha creato le sue opere analizzando in modo completo e approfondito il concetto di distanza, sia fisica che psicologica. Prendendo spunto dalla storia dell’arte, dal teatro e dalla letteratura, il linguaggio dello scultore spagnolo si è arricchito negli anni di personaggi in grado di raccontare delle storie, che tuttavia vengono taciute a chi si appresta a loro. Raccontano infatti dei dialoghi interiori, intimi, sussurrati o non ancora nati: il pupazzo del ventriloquo, ad esempio, presente in tre opere all’interno della mostra curata da Vicente Todolì, fa riflettere sulla sua natura di narratore potenziale. Un lavoro in potenza, quello di Muñoz: potenzialità di dialogo come potenzialità di movimento. Le grandi statue della serie Conversation Piece (create a partire dal 1994) hanno volti e busti umani, ma le gambe sono sostituita da delle semisfere che ricordano sacchi di sabbia, come delle moderne ballerine, che potrebbero danzare e volteggiare, ma che tuttavia sono ben salde al terreno, in una condizione irrimediabile di staticità.

È proprio lo spazio che intercorre tra l’immobilità e il movimento che interessa l’artista e che genera la distanza e il senso di vuoto che si prova nell’incomunicabilità. Scenari famigliari, appaiono così completamente estranei, non più riconoscibili, attraverso un’attenta progettazione e ricostruzione degli spazi architettonici e dei suoi apparati. Double Bind, focus della mostra per l’occasione adattata allo spazio delle navate, si basa sulla teoria del Doppio Legame, nata negli ’50 e sviluppata dalla scuola di psicologia di Palo Alto, che riguarda le incongruenze comunicative che possono sorgere tra due soggetti. Composta da una struttura a più piani, si presenta come un normale parcheggio sotterraneo: passeggiandovi all’interno si scoprono cavità e cavedi abitati da statue in scene di assoluta quotidianità, che non si riescono a scorgere altrimenti. Il tetto della struttura, infatti, è caratterizzato da una decorazione geometrica che simula dei vuoti, ma è solo nel momento in cui si vive lo spazio che si riesce a scoprire l’inganno e a comprendere che quei vuoti sono anche reali. Due ascensori completano l’opera in un moto perpetuo. Una vagare perpetuo e perenne, sempre uguale, una condizione esistenziale sempre volta verso lo slancio, ma con i piedi, però, incastrati nel cemento, invisibili, assenti. I giorni sembrano scorrere in una rituale monotonia, esattamente come nel teatro dell’assurdo di Beckett, fortemente presente, soprattutto nelle opere Living in a Shoebox (for Diego) e Many Times, entrambe degli anni ’90. Se nella prima le statuette che vivono in una scatola da scarpe in corsa senza sosta su una pista di un trenino richiamano Finale di Partita, le sculture senza piedi dai volti asiatici di Many Times sono come Winnie, la protagonista di Giorni Felici, intrappolata fino al collo in una montagna di sabbia. Ridono, sì, ma ognuna di quelle statue è sola e vive una vita a sé stante, senza lasciare spazio agli altri di entrare nel proprio intimo. Qui Muñoz analizza la distanza psicologica tra chi osserva e chi viene osservato, ribaltando i soggetti: in una stanza con cinquanta figure impegnate nei loro dibattiti privati, lo spettatore diventa un estraneo, diviene colui che viene osservato, si sente ‘diverso’. La totale assenza di suono fa vivere lo spazio espositivo in una condizione di sospensione temporale, facendo sentire l’osservatore simile alle Hanging Figures: appese per una gamba o con una corda che esce loro dalla bocca, queste figure sembrano vivano in attesa di un qualcosa, di cadere, di muoversi, di volteggiare.

Una mostra che crea tensione, ma che tuttavia appare equilibrata e pura, denotata da quella squisita qualità di essere complessa, ma non inaccessibile e che si può sintetizzare con le parole di Dino Buzzati ne Il Deserto dei Tartari: “Drogo si accorse di come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”. Dal 9 aprile al 23 agosto, HangarBicocca, Milano; info:

Foto, Attilio Maranzano, Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano

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