Wenders e Yamamoto

Il rapporto tra cinema e moda è sempre stato forte, univoco e complementare: il cinema influenza il modo di vestire e l’indumento è un elemento fondamentale nella riuscita di un film, di quello che il personaggio deve trasmettere e la sua personalità in un unico messaggio di fenomeni sociologici, comunicativi ed economici comuni. Quello che vediamo in Appunti di viaggio su moda e città è un viaggio esistenziale e metropolitano in due città, Parigi e Tokyo, alla scoperta di uno degli stilisti giapponesi più influenti dagli anni ’80; una serie di domande riguardo identità, individualità e originalità si rincorrono nell’arco dell’intero film.

Nel 1989 il regista tedesco Wim Wenders venne incaricato dal centro nazionale d’arte e della cultura Georges Pompidou di Parigi di girare un film sulla moda e decise di dedicarsi al lavoro di Yamamoto; girando scene con diverse videocamere, Wenders proietta su un televisore gran parte del girato in una matrioska di immagini in un chiaro riferimento di come l’immagine può essere codificata nella sua molteplicità, riflessione che attrae il regista in una sorta di connubio intrinseco fra i due; un film tipicamente wendersiano dove le dimensioni spaziali dell’inquadratura si annullano al realismo della messa in scena dello stilista su un background metropolitano, che unisce indifferenza e anonimato e multiculturalità e fa sfondo a riflessioni sulla creatività nel lavoro di Yamamoto. Le creazioni asimmetriche, spesso nere e cupe dello stilista nipponico riflettono antiche tradizioni e un futuro avanguardistico nell’ombra della distruzione e degli orrori post seconda guerra mondiale che Yamamoto ha vissuto e un subliminale invito all’introspezione; solo successivamente le collezioni acquistano sprazzi di colori, spesso accesi e brillanti, o addirittura il nero verrà accostato al bianco come luce che irrompe nell’oscurità.

Gli abiti di Yamamoto vogliono valorizzare l’interiorità, una vera e propria rivoluzione nel mondo sartoriale dell’haute couture della prima metà del Novecento; Wenders percepisce e riporta sulla pellicola questa particolare interpretazione della moda come linguaggio poetico, materializzazione dei sentimenti più intimi dello stilista. Wenders e Yamamoto ci trasmettono, in maniera diversa ma all’unisono, l’amore per la metropoli e per gli spunti su identità, personalità e regole sociali che le città in questione gli offrono: così come il cinema, anche la moda e i vestiti esprimono non solo una parte della personalità privata, di chi li crea e di chi li indossa, ma anche una dimensione sociale universale. Per distaccarsi da questo concetto, Yamamoto realizza abiti apparentemente anonimi, unisex, senza stereotipi: la ricerca di un’ispirazione neutra nasce, come vediamo dal film, dalla visione di vecchie fotografie in bianco e nero, cercando di scorgere l’identità delle figure ritratte dai loro abiti.

Il processo creativo dello stilista s’intreccia a quello del regista, che come voce fuori campo ci guida per l’intero lungometraggio; l’identità, nel percorso creativo, nella moda, nella società e nel mondo, è un tema ricorrente durante tutto il film, fra macchine da presa e videocamere elettroniche. Le creazioni di Yamamoto diventano un non-luogo dove maschio e femmina si annullano in un’unica atmosfera quasi post-atomica impregnata dai suoi ricordi post-bellici più intimi; una decostruzione del concetto della moda specchio della decostruzione delle immagini di Wenders che creano una impeccabile opera d’arte.