Sironi, notissimo sconosciuto

“L’arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza”. Parole di un pittore instancabile, che ambiva a infondere nelle sue opere un respiro di eternità, anche a costo di riporre speranze nella promessa della gloriosa rinascita italiana, decantata dall’ideologia fascista. A questo “notissimo sconosciuto” il Complesso del Vittoriano insieme con Il gioco del Lotto, consacra l’ampia retrospettiva Mario Sironi. 1885-1961 a cura di Elena Pontiggia, realizzata in collaborazione con l’Archivio Sironi, grazie al contributo di grandi musei pubblici e collezioni private. “Ora che tante carte, documenti, corrispondenze coi personaggi dell’epoca, studi preparatori e altro sono stati raccolti e ordinati – scrive Romana Sironi, nipote del Maestro e responsabile dell’Archivio Sironi, una vera miniera di conoscenze, non solo sull’artista, ma su tutto il XX secolo – è forte l’impegno di porsi l’obiettivo di promuovere e sviluppare sempre più tutte le iniziative e le attività culturali che servano ad approfondire lo studio, la conoscenza e la valorizzazione di questo artista”.

La mostra non si limita ai capolavori più riconoscibili, ma ricostruisce in un nesso intenso tra arte e vita l’intera parabola dell’artista, riscattandolo dal pregiudizio di una critica sufficiente, che lo condannava alla damnatio memoriae per l’adesione al regime. «Conoscere la storia artistica di questo pittore equivale più che in altri casi a meditare sulle radici e le motivazioni di un’epoca difficile come il ventennio fascista – dice il ministro dei Beni e delle attività culturali Dario Franceschini – La sua arte consegna Sironi alla fama di inventore di malinconici paesaggi urbani scolpiti nel silenzio, rendendolo mentore indiscusso della modernità». Sironi è ritratto in tutte le fenomenologie del suo talento, attraverso novanta dipinti, ma anche carteggi, bozzetti, cartoni preparatori per affreschi, copertine di riviste illustrate, manifesti pubblicitari, decorazioni di vetrate, mosaici e bassorilievi. Emerge la storia di un uomo ipersensibile al suo tempo e tormentato dalla depressione, segnato da un venerazione tale verso l’attività creativa da non sentirsi mai pago per la riuscita di un’opera: “l’arte mi sembrava cosa grande, sublime e inarrivabile – scrisse nel 1903 al cugino Torquato- che l’avevo sempre considerata una deità immensa a cui, a me povero mortale, non era purtroppo dato che di aspirare il soave profumo”.

L’esposizione parte dagli esordi nel clima della stagione simbolista con opere mai esposte e poco studiate, intessute di motivi liberty e di echi di William Morris. La luce è ancora chiara e diffusa, la gamma di colori variegata. A Roma, negli Anni ’10, l’amicizia con Boccioni segnò l’inizio dell’avventura futurista, ma si trattò di un’adesione più basata sulla scelta dei temi che sull’intima poetica. Sironi non condivideva l’intento dell’avanguardia di distruggere i musei, perché vivere nella capitale aveva segnato una fascinazione mai rinnegata per la classicità. “La pennellata divisa cerca sempre di aggregarsi e i dinamismi non giungono mai a incrinare l’architettura delle forme – scrive Pontiggia – Sironi sarà sempre un pittore-architetto, che prima di tutto aveva a cuore la solidità e la persistenza delle cose. Gli aspetti stilistici e decorativi sono sempre successivi a un intento edificante, perché dipingere equivale a costruire”.

Allo stesso modo, quando si accostò a Valori plastici e scoprì l’arte di De Chirico e Carrà, diede forma a una Metafisica più umana e “fisica”, segnata dal serpeggiare di una percezione espressionista. Sono gli anni dei celebri paesaggi urbani: ciminiere, fabbriche, binari, gasometri, muri di cinta, camion, biciclette, rotaie e convogli diventano emblemi della solitudine moderna. Sono scenari di grigie periferie monumentali, avvolte da foschi presagi e ferite da una luce tagliente. Ad abitarle si stagliano figure umane scolpite nell’ombra, che indossano vesti fuori moda, immerse in un tempo assoluto e drammatico. Dagli Anni ’30 Sironi abbandona il cavalletto per dedicarsi a murales, mosaici, allestimenti, vetrate o scenografie. Sia pur senza scadere nella retorica, Sironi vedeva nell’affresco il doveroso destino sociale dell’atto creativo e il proclama di una concezione rivoluzionaria: l’opera d’arte non è più condizionata da logiche di mercato, abbandona i salotti dei facoltosi collezionisti e i minuti sentimenti intimisti; nasce dalla committenza statale per offrirsi nei grandi spazi pubblici al cospetto del popolo e dare forma a contenuti più nobili e solenni. L’uomo immortalato da Sironi costruisce il senso della civiltà grazie allo sforzo titanico del duro lavoro.

Col Dopoguerra ogni ideale finì in frantumi. “Immane, cupa voragine, dove l’urlo sprofonda e si perde… Nel fondo ignoto rugge sinistro il terrore” scrisse il Maestro, tornando a quadri di piccole dimensioni col ciclo Apocalissi, considerato uno struggente testamento spirituale, in cui l’anelito all’eternità si arrende dinnanzi alla vocazione di tutte le cose a precipitare verso la fine.

Dal 4 ottobre all’8 febbraio, complesso del Vittoriano, Info: www.comunicareorganizzando.it

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