White Noise gallery at work

Roma

A via dei Marsi 20, a San Lorenzo, le porte in questi giorni sono state chiuse. La White Noise gallery, uno dei punti di riferimento romani della sperimentazione nell’arte contemporanea, è un cantiere in movimento. Si sta allestendo la prossima mostra: No connection, di Stefano Tedeschi. Il nome genera una particolare assonanza con qualcuno di famoso. Di successo ne avrà, visto il suo talento, ma di fatto Tedeschi è alla sua prima mostra in assoluto. È un giovane artista, classe 1984, nato ad Ascoli Piceno ma romano di adozione, che nelle sue opere esalta la tecnica del pennarello e della china su tela, abbinandola a una ricerca che spazia dalla letteratura alla meccanica. Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti, i galleristi che lo hanno scelto per la prossima mostra (dal 18 ottobre al 29 novembre), sono particolarmente orgogliosi di questa loro intuizione, perché di intuizione si tratta: «L’ho scoperto per caso – racconta Eleonora Aloise – l’ho notato mentre giostrava con il pennarello disegnando i suoi marchingegni aggrovigliati che danno vita a forme leggiadre e suggestive, mi sono accorta subito delle sue capacità e ho colto il valore artistico della sua proposta». «È un artista da White Noise – assicura Carlo Maria Lolli Ghetti – uno che lascerà il segno nella memoria di chi lo verrà a vedere».

 

Il lavoro dell’allestimento è esercizio che richiede tecnica e sacrificio. Fortunatamente alla White Noise non manca né l’una né l’altro. L’estro creativo di Eleonora (formazione: architetto) e la sapienza realizzativa di Carlo (formazione: ingegnere) sono un perfetto mix volto alla cura di ogni minimo dettaglio, fino ad avvicinarsi alla perfezione in ogni gesto. E poi serve ”sudore”. Ma questo non spaventa i due ragazzi. Qui alla White, spiegano, si fa tutto in casa. L’aura intellettuale del gallerista decade non appena si varca la soglia della galleria. Jeans, maglietta, guanti, martello, cazzuola, metro e cacciavite. Ecco gli strumenti del mestiere usati in questa fase da due come loro, che seguono di persona ogni momento della vita della loro ”creatura”.

 

Si comincia con la preparazione delle opere. Un compito che Stefano pererisce fare da sé. Tocca i suoi lavori con sicurezza e disinvoltura, con lo sguardo accorto di chi ne conosce ogni piccolo segreto. Si apparta per pulirle e spolverarle. È l’ultima volta che le apprezza in solitudine. Tra pochi giorni saranno viste da centinaia di persone, alcune di loro saranno acquistate e lui non le vedrà più. Si esporranno al pubblico giudizio, di esperti e non. A lui toccherà sentire le opinioni di tutti, molte delle quali ignare del lavoro certosino che si nasconde dietro a ognuna di queste realizzazioni, ma questo non lo spaventa, anzi. Lo incuriosisce, lo stimola. Del resto questo è lo scopo dell’artista, spiega Stefano. «Le opere sono per il pubblico, non voglio imporre una chiave di lettura – rivela – ma preferisco che parlino con l’osservatore suggerendogli le connessioni che preferisce».

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Se si studiano le opere di Tedeschi si ha la percezione che la forma venga totalmente ”smontata”. Il pennarello dell’artista scivola veloce sulla tela, disegnando geometrie che sembrano ”sventrare” la materia. Gli ingranaggi della forma si rivelano in tutta la loro crudezza, ogni connessione con il reale, il concreto e il finito, scompare. Appaiono, invece, meccanismi incatenati e traiettorie scombinate, riaffiora la letteratura potenziale di Raymond Roussel, un cumulo di codici che vengono dall’inconscio, in maniera quasi automatica. Del resto, l’arte di Tedeschi, in un certo senso, è una forma di scrittura. Ecco come le connessioni vengono completamente sospese.

 

Ma poi, guardando l’opera nel suo complesso, riemerge un equilibrio, la mente dell’osservatore ristabilisce immediatamente le connessioni con la realtà, riordinando quella scomposizione fino a vederci una forma. Le connessioni si ristabiliscono, ma quello che colpisce è che in molti suoi lavori l’artista gioca sulla soggettività dello sguardo dello spettatore: la forma finale non è univoca, si genera il dubbio, ognuno può vederci quello che la propria percezione gli indica e stabilire cosa c’è di correlabile con l’esperienza personale. È un viaggio molto introspettivo, quello a cui invitano i lavori di Stefano, a tratti, come ammette lui stesso, ispirato alle teorie del celebre biologo Jacques Monod, secondo il quale il caso è la legge fondamentale che regola la combinazione delle proteine e la loro struttura: ne deriva che l’organismo è una macchina chimica che si costruisce da sé.

 

Il lavoro procede veloce. Ci si confronta, si decide la collocazione di ogni opera, seguendo un filo concettuale che accompagni il visitatore a scendere più a fondo possibile nella comprensione della dialettica dell’artista.

 

E scendendo sempre più in basso, fino in fondo, letteralmente, si arriva al piano sotterraneo: la project room. Questa stanza è lo scrigno della White Noise gallery. Il luogo in cui i galleristi osano sperimentare gli effetti più scenici e sorprendenti per il pubblico. Nel caso di Tedeschi si sono sbizzarriti. Hanno voluto interrompere ”fisicamente” le connessioni con la realtà. E quale modo migliore per farlo se non tagliando simbolicamente la forza di gravità e sospendendo lo spirito tra le nuvole, sopra la città di Atlantide? E se l’unico riferimento per orientarsi fosse la luna, ma anche questa fosse in procinto di abbandonarci, coperta da un’eclissi lunare? È esattamente l’atmosfera che hanno creato i galleristi nel cuore della loro galleria. Hanno composto un’ambientazione surreale e immaginifica, a tratti nibelungica. La mente resta sospesa tra il cielo e la terra, attratta dalla luna che scompare. Tutto intorno, il buio, le nuvole e no connection.

 

La mostra inizia a prendere forma. Mancano pochi giorni al vernissage di sabato 18 ottobre alle 18. Il duro lavoro dei galleristi è ripagato dalla soddisfazione di vedere concretizzarsi un progetto che con molta probabilità stupirà il pubblico. E questo sentore si ha soprattutto quando viene montata l’ultima scultura di Stefano: è una rappresentazione della Gestalt, proposta attraverso un’interpretazione molto suggestiva del triangolo di Kanizka. Una sublimazione dell’opera di Tedeschi, perfettamente coerente con il suo messaggio molto contaminato da questa filosofia.

 

Non manca più nulla, a parte un po’ di pulizia. I galleristi hanno voluto valorizzare al massimo il potenziale dell’artista con un allestimento semplice ed elaborato. Quasi familiare, per mettere lo spettatore a suo agio nel proprio dialogo con l’opera. La White Noise gallery con questa mostra completa, di fatto, la sua maturazione come avamposto credibile e stimolante della scena contemporanea romana animata da chi va in cerca di stimoli tra l’urban style e il pop surrealismo. Se è quello che cercate, è molto facile che alla White Noise vi sentirete a casa vostra.

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