To be or not to be

Ai numeri 77-82 di Whitechapel High street, Londra rende omaggio a uno dei maggiori esponenti dell’arte concettuale italiana, Giulio Paolini con la mostra To be or not to be, seconda tappa di una collaborazione tra il museo Macro e la Whitechapel Gallery. Attraverso fotografie e installazioni, i due curatori, Bartolomeo Pietromarchi e Daniel F. Herrmann, hanno creato un percorso che attraversa l’opera dell’artista dagli anni ’60 a oggi, puntando l’attenzione su alcuni cardini di una riflessione molto concentrata sulle dinamiche di sguardo, il concetto di identità, il rapporto tra artista e opera d’arte.

Nell’oscillazione continua tra presenza e assenza, la figura dell’artista resta celata dietro un velo di mistero, creando un’atmosfera di dialogo in cui protagonista è lo spettatore. Nella mostra, infatti, egli si muove tra le sale ponendosi un costante interrogativo: «Dov’è l’artista?»; al quale Paolini stesso risponde, con una citazione tratta dal catalogo: «Non sono qui né altrove, semplicemente non sono». Si suscita, così, una sensazione di smarrimento positiva che nella pratica artistica di Paolini è il veicolo principale di contatto con le opere e permette l’interazione con un pubblico costantemente invitato a porsi domande: nulla gli viene rivelato in modo chiaro e distinto, ma gli vengono forniti solo suggerimenti, suggestioni, spunti di riflessione libera. Come si comprende dalle parole di Paolini, infatti:«L’artista non vuole parlare, comunicare in forma diretta, in tempo reale. Non vuole imporre la sua voce, ma ascoltare, cogliere un’eco».

A partire dalla fotografia Delfo, con un giovane Paolini nascosto dietro la tela con gli occhiali da sole, al centro del percorso espositivo c’è lo sguardo: lo sguardo dell’artista, quello dello spettatore, lo sguardo del soggetto dell’opera. Sono incroci di visione alla ricerca del concetto di identità che si esprime nel dubbio amletico: «to be or not to be». Questa domanda non è solo il titolo dell’esposizione ma è anche uno dei principali lavori esposti e fornisce la chiave di lettura della mostra. Al centro della sala, sul pavimento, una scacchiera di tele bianche e capovolte; nel mezzo, una fotografia di due soggetti che guardano un foglio bianco. È il momento in cui Paolini si interroga sull’opera d’arte che sta per formarsi, l’istante che precede la realizzazione, il work in progress concettuale. L’opera, simile ad una messa in scena teatrale affronta il tema del lavoro dell’artista cogliendo il momento di transizione tra l’ispirazione e la pratica.

La stessa teatralità si ritrova anche nell’istallazione Big Bang che riproduce uno studio d’artista, appena abbandonato, dove resta la traccia del lavoro nei fogli appallottolati, la luce accesa, la tela bianca e la riproduzione in miniatura dello stesso contesto ripetuto all’infinito, o ancora nell’opera L’autore che credeva di esistere, prodotta per il Macro nel 2013 in cui si evoca la dimensione dell’hortus conclusus dove l’artista affronta il duello con l’essere o non essere dell’opera e dunque di se stesso: un infinito metateatro in cui opera e artista si mostrano parlando di sé come attori. Ecco svelato l’intento di Paolini e della mostra: lasciare che l’opera parli da sola, come egli stesso ha affermato nel 1988: «I’ve never wanted to express myself in the work. I’ve always left the work to express itself, to declare itself, to speak out loud and clear about what it is and where it comes from».

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