Fare una mostra

Sono tre le date di nascita di Hans Ulrich Obrist. Una è quella biologica, Obrist è nato a Zurigo nel 1968. Poi c’è il 1986, data in cui nasce come curatore, entrando per la prima volta nello studio di Fischli e Weiss. Infine il 1994, data in cui nasce il fenomeno mediatico Obrist grazie alla mostra Do it. Ha senso, se si parte dal presupposto che la sua vita non è come quella di tutti noi, è molto più lunga. Qualcuno dice che Obrist non dorma mai, altri ipotizzano che possegga il dono dell’ubiquità, delle voci addirittura sostengono che non possa invecchiare. Certo è che uno dei suoi desideri più reconditi, è che vorrebbe che le sue giornate durassero il doppio e, per riuscire a fare almeno la metà di tutto quello che dorrebbe, da bravo svizzero, segue dei ritmi assolutamente serrati. Anche questo ha senso, altrimenti non ci potremmo spiegare quando e come abbia fatto a fare tutto quello che ci racconta nel suo ultimo saggio, edito da Utet, dal titolo Fare una mostra.

Se un tizio qualunque ci narrasse in un testo di 252 pagine la storia della sua carriera, le sue ambizioni, i personaggi che l’hanno ispirato e che hanno avuto per lui il ruolo di mentori, probabilmente non ce ne importerebbe niente e, di certo, il suo libro non ce lo andremmo a comprare. Ma Obrist non è un tizio qualunque e il suo saggio è prima di tutto un’autobiografia, in cui ricordi ed esperienze si intrecciano per spiegare che ingredienti ci vogliono per fare il mestiere del curatore. Una professione che viene spacciata per moderna (e moderna la è nella sua attuale accezione del termine), ma che in realtà è il secondo mestiere più antico del mondo, perché, come spiega nel testo, le attività che combina in un unico ruolo sono ancora ben espresse dal significato della sua radice latina, curare, prendersi cura di. Partendo dal suo primo approccio all’arte, Obrist, traccia le tappe fondamentali della sua vita professionale, caratterizzata da incontri e scambi intellettuali che segnano il suo lavoro, primo tra tutti il suo incontro con Alighiero Boetti. Definito da Obrist come l’unico in grado di competere con la sua velocità nel parlare, da lui apprese un monito che gli sarà utile per tutta la vita: Non essere un curatore noioso e non limitarti a dare all’artista uno spazio da riempire. Il momento della sua scomparsa, Obrist lo ricorda così: “Sono stato immediatamente colto dal rammarico che tutte le conversazioni che avevamo avuto improvvisamente non ci fossero più”.

Comincia così una lotta contro il tempo, affannosa, per raccogliere quante più informazioni possibile. Nessuno poteva ritrarlo meglio di Marina Abramovic che in un video del 2010 ne scimmiotta l’aspetto indossando i suoi inconfondibili occhiali dalla montatura trasparente, elencando 20 aggettivi che più lo contraddistinguono, prima molto lentamente, poi sempre più veloce. Racconta che proprio la morte di Boetti lo spinge a iniziare le sue Interviews, conversazioni infinite, frutto dello sbobinamento di oltre 2.000 ore di registrazione, che Obrist ha avuto informalmente con artisti, intellettuali, cineasti, architetti, filosofi, tra cui Matthew Barney, Tacita Dean, Rem Koolhas, Édouard Glissant e Olafur Eliasson. Due interviste al giorno, questo il piano sistematico per lasciare tracce fisiche nella memoria intangibile, per protestare contro l’oblio. Questo processo diventa per lui la fonte da cui scaturiscono mostre, libri, idee, stimolate soprattutto dalla domanda: «Qual è il suo progetto irrealizzato, il suo sogno?». Obrist per tutta la sua carriera ha tentato di dar vita ai sogni incompiuti degli altri, cercando sempre di uscire dagli schemi e di dare vita ai progetti impossibili.

Nel saggio HUO sembra rivendicare fortemente il ruolo autonomo del curatore, che oggi rischia di confondersi nel marasma di contaminazioni interdisciplinari dei mestieri. Seppur riconoscendo nell’ultimo capitolo Curatori del futuro che nel settore delle esposizioni d’arte si cominciano a esplorare le potenzialità del digitale e che le nuove generazioni e i nuovi strumenti possono offrire nuovi spunti per il mestiere di curatore, trasformandone le fattezze, rimane dell’idea che la definizione di curatore debba rimanere ben distanziata da quella dell’artista: “Alcuni teorici sostengono che ormai i curatori sono artisti secolarizzati in tutto salvo che nel nome. Io però credo che questa sia un’esagerazione. Sono convinto che il curatore segua l’artista e non l’inverso”. Forse perché, per riprendere la frase pronunciata dalla Abramovic, the curator is present, the artist is absent.

Fare una mostra, Hans Ulrich Obrist, UTET, 14.00 euro, 2014; www.utetlibri.it/libri/fareunamostra

 

 

 

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