Alberto Burri, un profilo

«Andammo a Gibellina con l’architetto Zanmatti, il quale era stato incaricato dal sindaco di occuparsi della cosa. Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese. Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere subito mi venne l’idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest’avvenimento».

Il 15 gennaio 1968 un terremoto devastante colpì i comuni della valle siciliana del Belice, il sisma provocò oltre mille vittime e più di 90 mila persone rimasero senza casa. Gibellina, antichissimo borgo arabo, fu raso al suolo, al suo posto, distante venti chilometri, sorse un nuovo tessuto urbano, una città ideale, secondo le aspettative della politica locale, ma che divenne ben presto un fallimento urbanistico nonostante la volontà di chiamare a lavoro i più importanti artisti contemporanei che lasciarono il loro segno nella nuova città. Fu chiamato anche Alberto Burri, egli si rifiutò categoricamente di lasciare una sua opera nel cantiere in costruzione, decise così di tornare tra le macerie di Gibellina, il suo cretto di cemento bianco racchiuse tutto le macerie che rimasero dell’antico borgo. La catastrofe di Gibellina è un evento fondamentale nella storia di un artista che ha segnato profondamente la storia dell’arte contemporanea in Italia, Gibellina è il simbolo di un modus operandi che contraddistingue Burri nella sua volontà di una ricerca espressiva mai fine a se stessa che prevede la spinta e la volontà di generare un nuovo linguaggio, di interagire con la materia come nessuno mai aveva pensato prima di allora. Il Grande Cretto è l’immagine chiave del vocabolario utilizzato dall’artista, la materia povera, umile, connaturata da una forma che apparentemente non cede nulla alla vista, ma che irradia con tutta la sua forza nella suggestione metafisica della sua presenza.

Il percorso espressivo di Burri inizia in seno alla professione medica, nel 1940 dopo la laurea in medicina si arruola come ufficiale nell’esercito, nel ’43 durante il secondo conflitto mondiale, viene fatto prigioniero a Tunisi e trasferito l’anno successivo in Texas. La prigionia è il momento di svolta, Burri si avvicina all’attività artistica che da quel momento diverrà la sua ragione di vita, una volta tornato in Italia abbandona definitivamente la medicina per immergersi nella pittura. La materia è l’essenza della ricerca: ferro, legno, plastica, sacchi, stoffe, strumenti eterogenei che definiscono un’armonia propulsiva sconosciuta, dove la superficiale semplicità di un’immagine reca in sé la nozione di una realtà mai univoca e dalle singolari sfumature. Nella prima metà degli anni Cinquanta l’artista avvia la sua indagine materica attraverso la serie dei sacchi, il materiale logoro inizia a dare scandalo, l’America reagisce subito alla novità e pochi anni dopo, già nel 1953, l’artista viene consacrato attraverso una serie di mostre che daranno avvio a una nuova stagione di ricerca contrassegnata dalla corrosione della materia.

Nel 1957 le combustioni irrompono nel linguaggio di Burri, il fuoco diviene il medium d’elezione per modellare e plasmare l’inorganico, la plastica e il legno prendono vita, acquisiscono uno status monumentale come in Rosso Plastica in cui è evidente un sentimento drammatico di consunzione laddove la dimensione del peso corporeo è narrata dal progressivo deperimento della materia che innesca immagini ultime di umanità. Vi è un senso altamente religioso nell’estetica di Burri, una dimensione primordiale che esige silenzio e contemplazione: «Il quadro ti conduce, è vero – afferma l’artista – però al tempo stesso sei tu che lo conduci, perché il quadro conta quando è finito, conta solo allora. E lì arrivi tu per dire che è finito».

Negli anni sessanta la sperimentazione giunge all’apice con la produzione dei cretti. I cretti sono il risultato dell’essiccazione del caolino che produce un effetto craquelé, il susseguirsi delle crepe e delle fenditure creano un ritmo strutturale in cui la screpolatura determina l’emergenza di tracciare un inedito orizzonte figurativo. Il sudario di Gibellina è la sintesi di questo sviluppo, il Grande Cretto bianco di cemento è un velo di silenzio posato sull’ombra della distruzione, il sigillo indelebile di un vuoto che disegna una realtà spezzata. Burri oltrepassa il linguaggio simbolico, lega la forma a una sostanza conoscitiva che reca in sé l’immagine dell’invisibile dove il contenuto, impassibile passeggero di creazione, riconosce l’esplodere di una rinascita mai univoca, celata tra le pieghe della materia inorganica che genera un marchio inconfondibile di bellezza.

Il 2015 sancisce, grazie alla ricorrenza dei 100 anni dalla nascita di Burri, la definitiva consacrazione di un artista che è perno fondamentale del contemporaneo, il Guggeneheim di New York si prepara a celebrare con una grande retrospettiva il maestro di Città di Castello. In una famosa intervista realizzata da Stefano Zorzi, Burri ripercorre la sua carriera e il suo metodo tecnico ed estetico di ricerca, portando il discorso verso un’analisi completa del suo lavoro: «Nel mio cambiare i materiali non c’è nessun programma. Dopo un po’ mi annoiavo a usare la stessa materia, e così provavo i materiali a me più vicini, più facili. Perché non c’è nessun bisogno dei colori, dei pennelli. Non c’entra tanto il materiale, quanto piuttosto le forme e lo spazio nel quadro. L’apporto del materiale è minimo; la morbidezza del legno e la durezza del ferro, non sono certo queste le caratteristiche del quadro. La caratteristica principale è la forma. I colori sono così dentro alla mia testa che potrei farli al buio. Si potrebbe obiettare che gli impressionisti dovevano andare a vederli con i propri occhi. Ma io il bianco ce l’ho nel cervello. E come il bianco, il nero e il rosso. Potrei fare i miei quadri al buio. Ci sono in effetti dei colori che non mi dicono niente, perché io cerco i colori puri. Per me la costruzione geometrica del quadro è in effetti molto importante, ma è una geometri a me istintiva e basta. Non c’è altro». Niente da aggiungere, la materia inorganica vive ancora nei lavori del maestro umbro, colui che ha raggiunto la creazione di un’immagine ove risiede «l’ombra onnipresente della vita».