Roma, il grande crac culturale

Cinque miserabili biglietti al giorno! Se volete capire il magnifico fallimento e sentire anche fisicamente la morte della cultura a Roma andate nel quartiere Ostiense al museo Montemartini che in Italia è forse il più bell’esempio di riuso, anzi di “rammendo”, per usare il tic linguistico alla moda. Le statue antiche nella vecchia centrale elettrica e il frontone del tempio d’Apollo in fondo alla sala macchine sono una convivenza magica e definitiva, come vedere la cupola di San Pietro posata, a cappello, sul Pantheon. Ma l’eccitazione è più potente perché non ci sono visitatori. Ci sono invece i fantasmi: l’archeologia industriale delle turbine e delle caldaie, l’archeologia classica delle Veneri senza testa e della barbe di Lisippo, e poi io e quattro americani, archeologia del turismo museale. Più frequentato è ovviamente il Mosè, in San Pietro in Vincoli, ma senza mai la folla che ti aspetteresti, la fiumana della Cappella Sistina, e chissà che direbbe Michelangelo di questa disparità di trattamento dei suoi capolavori. Magari chiederebbe al Papa di far pagare l’ingresso nella chiesa, come fanno (solo) a Venezia.

La cultura che muore a Roma non è un taglio del bilancio, che in Italia è solo una banalità, ma un territorio fisico e mentale sterminato che parte dai 19 chilometri delle mura aureliane, che franano un tanto al giorno – l’ultimo crollo è quello di piazzale Ardeatino – e arriva sino all’industria del cinema che dava lavoro a 250mila persone. Si chiude a Cinecittà. Sono cancellate Le Notti di Cinema a Piazza Vittorio e la Rassegna dei film dei grandi festival (Cannes, Locarno e Venezia). Il sindaco si ostina a non nominare il direttore della Casa del Cinema. Vive nella mediocrità il Festival inventato da Veltroni (non più 17 milioni, ma ancora 12). È sparita la Film commission che una volta “vendeva” i luoghi di Roma alle troupe. “Ma Roma non è solo la città “del” cinema, è anche la città “dei” cinema mi dice Massimo Arcangeli, segretario dell’Agis-Anec: “Si sono spenti almeno 50 schermi”.

Per salvare Roma dal fallimento, il sindaco Marino ri-corteggia gli Emiri, sogna una “soluzione Alitalia”, uno sceicco per restaurare il mausoleo di Augusto per esempio, 18 milioni per una ferita che fu aperta dal fascismo. C’è il progetto, approvato nel 2006, con l’esposizione del plastico dello studio Cellini ma, ogni volta che cambiano, i responsabili delle Sovrintendenze costringono il povero Cellini a nuove varianti: fino ad ora 20 . E chissà a Caracalla cosa farebbe il sultano Mansour dei forni sotterranei dove l’amore divenne “fornicare”: sono “chiusi per mancanza di personale”. Nel prezzario dei monumenti (Economic Reputation Index) stilato dalla Camera di Commercio della Brianza, che Marino portò con sé in Arabia Saudita, la Fontana di Trevi vale 78 miliardi e il Colosseo 91. E però non solo gli emiri, ma anche il potente Emmanuele Emanuele, barone e marchese palermitano, avvocato e banchiere, califfo ed alcalde della Roma bizantina, che fa il bagno nel Tevere ogni mattina, dopo avere promesso di finanziare il restauro del centro barocco con i soldi della sua Fondazione Roma pretende ora lo sconto Rolling Stones (“il sogno rock” di Marino, come si sa, ha reso solo 7930 euro per l’affitto del Circo Massimo). È l’ennesima conferma che la cultura a Roma rimane romanesca – Belli,Trilussa e Rugantino – e le statue sono tutte Pasquino, e persino nelle mascherate ci sono i gladiatori e non i legionari.

E infatti l’assessore alla cultura, che in teoria avrebbe il potere di un Console, qui non ha mai contato nulla e perciò Marino non l’ha ancora nominato dopo avere, un mese fa, costretto alle dimissioni Flavia Barca, famosa sorella di Fabrizio, a sua volta famoso figlio di Luciano. La cultura a Roma è fatta anche di cognomi. Nella classicità erano le gentes: la gens Giulia per esempio. Un cognome è Carandini: “La terra ai Carandini” diceva Maccari in rima satirica con“la terra ai contadini”. Lui, Andrea, il grande archeologo, è l’uomo che Marino sogna alla Cultura. Più che un assessore, un Primo Console Alto Imperiale. Ed è da gens anche l’esposizione al Maxxi del pittore Andrea Boldrini, fratello.

Un altro sogno impossibile di Marino è l’unificazione di tutto, a partire dai musei capitolini che sarebbero forse 22, numero variabile come le 99 cannelle della fontana dell’Aquila che nessuno riesce a contare ( il compianto Gianni Borgna nel suo libro scriveva in una pagina che i musei sono 45 e in un’altra pagina 39). E si comincia con i due musei del Campidoglio dove sono esposti la Lupa, il Gàlata Morente, il San Giovannino e la Zingara del Caravaggio. Sono i soli che hanno visitatori. Tutti gli altri sono deserti, a partire da Palazzo Braschi, pittura, e, di fronte, lo stupendo Barracco con una collezione egizia; non lontano c’è quello napoleonico, e ancora il museo delle mura Aureliane e l’Ara Pacis, il Bilotti, il Canonica , la Galleria nazionale d’arte moderna, le 4 sedi espositive di Villa Torlonia con la scuola romana. Non c’è mai nessuno, tranne al caffè del Bilotti: attira gli assetati di villa Borghese.

È chiuso lo stupendo museo della Civiltà Romana, all’Eur, un’eccellenza mondiale di plastici e ricostruzioni ( è aperto solo il Planetario). E ci sono musei mai esistiti, scatoloni di oggetti come il ‘museo’ degli strumenti medicali che giace in un sotterraneo della Sapienza (nessuno sa dove), e il museo del giocattolo che Veltroni acquistò per 4 milioni e mezzo da un collezionista danese e fu stipato in un capannone di Perugia. A Villa Pamphili c’è un museo di statue che non è mai stato aperto al pubblico. E il museo di zoologia è attaccato allo zoo ma senza la possibilità di passare dall’uno all’altro, perché si fanno la guerra di frontiera, come Giappone e Cina, zoologi e zoologisti, proprio come l’Opera e l’Accademia di Santa Cecilia, che sono i Romolo e Remo della musica “ab urbe condita”. Forse la sola unificazione realizzabile è tra il Macro e il Palazzo delle Esposizioni, che comprende le splendide Scuderie del Quirinale, quelle della recente Mostra del Caravaggio, con più di seicentomila visitatori. Se si esclude la chiusura della Casa del jazz, usata per la festa dell’Unità pur essendo un bene pubblico e per giunta un’espropriazione antimafia, il Palazzo delle Esposizioni ha una gestione d’ eccellenza, nonostante Marino l’abbia messa a rischio lasciando per troppo tempo il direttore generale Mario De Simoni, solo, senza presidenza (ora c’è Franco Bernabè).

E il sindaco non nomina il direttore del Macro, il museo di arte contemporanea, che già campicchiava con piccole mostre ma adesso ha perduto pure i soldi dell’Enel e dell’Associazione Macro-Amici di Beatrice Bulgari: chiusi bar e ristorante, non ci sono guardiani e gli artisti portano via le opere perché temono i furti. Il Macro è un bel luogo desolato e desolante. E ci piove pure dentro (c’è un drammatico video su youtube). L’ambizioso Maxxi, che è statale (5 milioni di finanziamento), non è riuscito a diventare il Museo Nazionale dell’arte contemporanea e dell’architettura (i modelli erano la Tate, il Centre Pompidou, il Reina Sofia). Ma nella Roma depressa fa, comunque, molto traffico: incontri, lezioni, cicli, attività multimediali, canzoni, cinema, persino lo yoga. La presidente Giovanna Melandri, che sempre contesta e sempre è contestata, insegue l’idea di “un foro romano” che forse però è solo “la Roma garage” di Moravia o “la terrazza” di Scola che si nutre di materia umana mista e di eterno vernissage. Non è la Tate, ma è già qualcosa.

“Il paradosso dell’arte contemporanea a Roma è che l’unico museo effervescente e attivo è il Maam sulla Prenestina” mi aveva suggerito Umberto Croppi, l’assessore che fu cacciato da Alemanno ma che gode di una rarissima stima trasversale. Sono dunque andato nello stabilimento ex Fiorucci (salumi, non vestiti) dove vivono circa duecento famiglie di immigrati: rom, sudamericani, nordafricani, Est europeo e pure italiani. Fuori ci sono i murales, alcuni molti belli, di Kobra e di Borondo. Dentro realizzano ed espongono artisti di ogni genere. “Vale la pena andarli a vedere – mi aveva detto Croppi – il livello è alto, e tra tutti gli esperimenti di integrazione attraverso l’arte, questo non è retorico ed è condiviso dalla comunità che ospita gli artisti”. Ho trovato straordinaria la trasformazione di un ghetto di rifugiati in un fenomeno sociale. Giorgio de Finis, antropologo, è il direttore artistico, e qui è forse tutto velleitario e naïve come lui; ma di sicuro è questa la periferia che piace a Renzo Piano, quella del pensiero laterale che costruisce razzi con i bidoni per raggiungere la luna. Sono, di nuovo, i poveri che volano di ‘Miracolo a Milano’, il più bel film di De Sica, proprio perché non neorealista. E ho pure visto cantare i bimbi rom: somigliano ai ladruncoli di Termini, ma sembrano più bimbi e più felici. […]

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