Casualità e controllo

Non sapere quello che diavolo stà succedendo o l’impossibilità di prevederlo non sempre sono un limite per la creazione artistica. Contro ogni sano (ma obsoleto) principio di matrice romantica, dell’uomo come creatore onnisciente, si scaglia il saggio di Luca Panaro, Casualità e controllo. Il volumetto, appena 53 pagine edito da Postmedia, è una storia costruita su artisti che hanno deciso di mettere da parte il dominio sull’opera lasciandolo alla macchina. È infatti con la nascita della fotografia che per la prima volta l’uomo si trova a fare i conti con una cosa in grado di guardare come l’occhio umano e in aggiunta capace di registrare per sempre ciò che vede. «Le fotografie non sembrano profondamente determinate dalle intenzioni dell’artista – scrive la Sontag – devono piuttosto la loro esistenza a una libera cooperazione (quasi magica, quasi accidentale) tra fotografo e soggetto, mediata da una macchina sempre più semplice e automatizzata che, anche quando fa i capricci, può produrre risultati interessanti, e comunque mai del tutto sbagliati».

In quel «mai del tutto sbagliati» è riassunto l’intero saggio di Panaro. Non è l’essere umano ma la macchina e come scrive Barthes: «La veggenza del fotografo non consiste tanto nel vedere, quanto nel trovarsi lì», come a dire: a vedere (e registrare) pensa l’obiettivo. Certo, sono dovuti passare decenni prima che la fotografia capisse la sua vera natura e ventenni prima che la riuscisse a sfruttare liberandosi definitivamente dallo scimmiottare (a volte con risultati disastrosi) la pittura. Prima di capire, insomma, che oltre alla possibilità di cogliere il reale c’è di più: la possibilità di annullare (o quasi) il soggetto dietro l’obiettivo, concetto del resto lontanissimo dal mondo ottocentesco. Non facciamogliene una colpa, ecco.

Ethel Scull è uno dei primi nomi che viene fatto nel libro, la data è il 1963 e la storia è nota. Scull, moglie di un magnate newyorkese decise di farsi fare un ritratto da nientepopodimenoche Andy Warhol. Il padre della pop art accetta e porta la ricca signora dentro una cabina per fototessere. A decidere in questo caso non è stato l’occhio dell’artista, non la sua capacità di lavorare in camera oscura ma una macchina che portava a un risultato finale imprevedibile e soprattutto ingestibile. Ugualmente imprevedibile il progetto dell’argentino David Lamelas,1969 Milano, che scattava fotografie ogni due minuti dallo stesso angolo di strada con la stessa inquadratura. Lamelas così si nascondeva dietro l’obiettivo non decidendo né il momento dello scatto, né chi fotografare. Scrive Vilém Flusser «L’immaginazione dell’apparecchio è superiore a quella di ogni singolo fotografo e a quella di tutti i fotografi messi insieme». Messa così, cercare d’imporre il proprio volere alla machina fotografica sarebbe un errore. O meglio, sarebbe non sfruttare a pieno le possibilità della tecnica.

Panaro nel saggio analizza il rapporto con la casualità studiando anche il mezzo filmico. Punto di partenza imprescindibile è di nuovo Andy Warhol (e non potrebbe essere altrimenti dato il suo sogno di diventare una macchina). L’artista filmava fino a fine pellicola lo stesso soggetto, senza interruzioni, per ore, presentando poi il lavoro, come è stato girato, privo di montaggio. Otto ore di Empire state bulding dove il tempo reale coincide con il film. Ingestibile anche qui tutto ciò che accade, nel mentre si gira, di fronte l’obiettivo. A estremizzare il concetto ci pensa il tedesco Wolfgang Staehl, pioniere della net art, quando nel settembre del 2001 ha presentato nella galleria neworkese Postmasters immagini apparentemente statiche delle torri gemelle su tre pareti dello spazio. Le proiezioni erano in realtà dei flussi video che venivano aggiornati con una scatto dell’immagine in tempo reale, video ripresi attraverso una webcam che ogni tre secondi aggiornava i contenuti. L’artista non faceva niente, lasciava fare all’occhio tecnologico che registrava ogni minimo accadimento, del resto non diretto da Staehl. Il caso ha poi voluto che questa installazione fosse la prima testimone del crollo delle torri, vittime del noto attentato. Un evento enorme di certo non voluto dall’artista e impossibile da prevedere e torna ancora Barthes: «La veggenza del fotografo non consiste tanto nel vedere, quanto nel trovarsi lì».

Questi sono solo alcuni esempi che vengono analizzati nel saggio di Panaro, scritto breve ma denso, che cerca di riordinare ciò che in realtà è impossibile da analizzare: il caso.

Info: www.postmediabooks.it

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