Fundamentals, parla Ciorra

Pippo Ciorra, senior curator del Maxxi, docente di progettazione presso la Scuola di architettura di Ascoli Piceno e membro del Cica, racconta a Inside art il suo punto di vista sulla Biennale di Venezia e fa alcune esclusive anticipazioni sui programmi del Museo delle arti del XXI secolo di Roma.

Come valuta scelta da parte del direttore artistico Rem Koolhaas di intitolare questa Biennale dell’architettura Fondamentali?

«Fundamentals è uno specchietto per le allodole, funziona bene perché a Venezia ci sono le fondamenta invece delle strade, ma la vera natura della Biennale è racchiusa nell’idea Elementi dell’architettura, la mostra curata da Koolhaas al padiglione centrale».

Ritornare agli elementi è importante?

«Secondo me no, è solo un gioco intellettuale, forse onesto, fatto nel tentativo di cancellare alcune derive dell’architettura e del sistema produttivo per ritrovarne l’identità. È una mostra che vuole fare pulizia, più che proporre qualcosa per il dopo».

Si può dire una Biennale che lascia spazio ai giovani mettendo da parte le archistar?

«Questa è la Biennale di Rem Koolhaas, il grande regista di tutto; anche l’assegnazione dei Leoni d’oro e delle menzioni speciali ne sono prova. Koolhaas è di fatto un’archistar, ha contribuito a istituire un sistema di produzione dell’architettura abbastanza lontano dalla realtà, fatto di budget infiniti, possibilità infinite, grandi costruzioni a Dubai, Pechino, e così via».

Un’architettura lontana dalle istituzioni umane?

«Lontana dalla misura del cittadino e dalla scala a cui lavora un architetto normale, che deve costruire a 800 euro al metro quadro. È come se Koolhaas volesse recuperare questo divario e rimettersi al servizio della disciplina. Dubito che il gioco riesca per due motivi: se hai fatto il ladro tutta la vita risvegliarsi poliziotto non funziona mai, ovvero se hai rotto e ridefinito sempre i limiti dell’architettura, poi riportarti al centro è difficile; secondo motivo è che l’architettura, come altre arti, non è fatta solo di elementi costitutivi, ma soprattutto di sintassi, è composizione degli elementi in uno spazio dato. Invece l’elemento sganciato, in sé, mi ricorda la sua esistenza nella storia, mi fa capire che fin dal 3000 a.C. l’architetto lavorava con il muro, ma si fatica ad andare oltre, portando il messaggio a un vasto pubblico».

C’è una visione storica degli elementi?

«Secondo me no. Tende a intendere la storia dell’architettura come un presente interminabile, cosa che per altro condivido: un muro di oggi in fondo è uguale a quello di tremila anni fa, anche se cambiano le tecniche. È la differenza tra un architetto e uno storico. Uno storico ha bisogno di costruire una successione diacronica delle cose. Un architetto deve riferirsi a tutte le cose come se gli fossero contemporanee».

Cosa pensa del tema comune assegnato ai padiglioni, Assorbire la modernità?

«È l’aspetto che più mi è piaciuto di questa mostra, cioè che tutti siano riusciti a svolgerlo senza essere né troppo didascalici, né troppo superficiali. Si pensi al lavoro fatto nel padiglione francese, o in quello coreano che ha vinto Leone d’oro, oppure dagli olandesi: hanno tirato fuori storie molto interessanti, ad esempio su architetti degli anni ’50, ’60 o ’70, che non ricordavamo e che siamo contenti di aver riscoperto. Inoltre esordiscono paesi nuovi, che non siamo abituati a vedere vincere e che hanno fatto scelte significative per i loro padiglioni. I russi secondo me sono molto divertenti con la loro idea di vendere la storia; i cileni hanno fatto un lavoro potentissimo, una grande esposizione e una grande storia, che segna il legame tra architettura e mondo. Alla fine quello che uscirà meglio dalla Biennale saranno proprio i padiglioni e Assorbire la modernità».

Come valuta la scelta di Milano come protagonista del progetto curatoriale del Padiglione Italia? C’è un collegamento con l’Expo 2015?

«Cino Zucchi è uno degli architetti contemporanei più bravi della mia generazione, però è architetto, non curatore. Trovo naturale che scelga di Milano, perché è collegata al suo profilo professionale; ha sempre lavorato a Milano, anche su architetti milanesi storici. Chiaramente il tema crea un collegamento utile con l’Expo, un po’ per cronaca, un po’ perché si tratta di uno sponsor piuttosto grosso della Biennale. Nonostante sia trattata Milano per l’Italia, ossia la parte per il tutto, questa città funziona bene perché è un termometro interessante della storia del modernismo italiano. Trovo invece meno congrua la seconda stanza del padiglione: non è chiaro se sia un paesaggio o un racconto di architettura. Emerge il solito vizio dei padiglioni italiani di inserire cento nomi, con il rischio che alla fine il visitatore non ricordi nessuno».

Una sua opinione sull’interdisciplinarità della Biennale dell’architettura che quest’anno si lega a quella di danza, teatro, musica e cinema?

«È interessante per l’idea dell’interazione spaziale. Ho trovato orribile la scelta dei film sull’Italia che girano alle Corderie, perché sono i più banali di tutti. Sospetto una funzione ancillare e decorativa delle altre arti rispetto all’architettura, ed è evidente che non abbiano pensato alla mostra insieme».

Cosa vede, da docente, nel vivaio degli studenti di architettura?

«Ragazzi con molta voglia di imparare, ma senza sufficienti sbocchi e stimoli, perché le cose si imparano facendole. Gli anni ’90 hanno prodotto una generazione di architetti italiani molto acuti, tanti rendering, mostre, modelli, ma se non ne è esce qualcosa di costruito e solido i giovani talenti poi si perdono. Questo lo ho raccontato nella mostra Erasmus effect al Maxxi: chi ha qualcosa da raccontare e voglia di mettersi alla prova va all’estero, ma la novità interessante è che recentemente sta provando a rientrare».

Come può l’architettura italiana uscire dalla crisi?

«Ho affrontato il tema nel saggio Senza architettura, per trovare soluzioni, partendo dalle criticità attuali, come la scomparsa della città, la fine del rapporto organico con la committenza pubblica, la trasformazione del critico in curatore, o le insidie e le promesse della sostenibilità. È un problema di investimenti sulla qualità, di università, cultura ed economia, ma pure di rapporto con l’arte, perché dagli Anni ’70 non c’è più un rapporto con la natura estetica di questo lavoro».

Può darci qualche anteprima sulle mostre al Maxxi?

«Ci sarà una mostra sul designer Gaetano Pesce, di cui preferisco per ora non parlare. A dicembre faremo una mostra storica sull’architettura negli anni del conflitto mondiale, che spieghi come la tecnologia di guerra, l’urgenza, la pressione o il camouflage hanno stimolato ricerche architettoniche molto influenti sul moderno. Nel 2015, in parallelo con l’Expo, faremo una specie di “anti-Expo”, qualcosa di meno ufficiale e più radicale, sul tema del cibo. Non possiamo esimerci dall’organizzare qualcosa che risponda al grande evento milanese. Racconteremo come produzione, spostamento, distribuzione, consumo e smaltimento del cibo sono tra gli elementi principali che disegnano lo spazio delle città e della vita delle persone. Porteremo esempi a partire dalla centuriatio romana alla pianura padana, fino alle traiettorie del cibo in India o in Africa».

Con il tema del cibo siamo davvero ai ”fondamentali”?

Rispetto al Koolhaas di oggi, a cui forse mi sento meno vicino, penso che i fondamentali dell’architettura sono ancora quelli di trovare argomenti su cui l’architettura cresce e si espande. Piuttosto che sapere che un muro è un muro, che una casa è una casa, cose che, sono certo, sappiamo tutti molto bene.

Dopo questa Biennale cambierà qualcosa?

«Assolutamente no, la Biennale è una mostra, non lascia un messaggio dirompente per il futuro. Anche se una Biennale come quella di Paolo Portoghesi dell’80, nel bene o nel male, è riuscita a restare nella storia e a modificare la situazione».

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