Franceschini e il ghetto dei libri in tv

Arringare alla latitanza dei libri in tv, sostenendo che in Italia non si legga perché Nonno Libero dovrebbe sfogliare più volumi, dà l’immagine completa del modo in cui la politica inquadra la cultura. C’è poco da fare. Perfino per un politico-scrittore come il neoministro Dario Franceschini, che d’altronde ha in canna anche un bell’adeguamento dell’equo compenso Siae. Ma è un’altra faccenda. Ieri, all’inaugurazione del Salone del libro di Torino, l’autore della Follia improvvisa di Ignazio Rando ha detto che «in ogni fiction, o film in televisione, o show che io veda, c’è sempre uno che parla, che litiga, che ama e che fa pace, ma mai uno che legga un libro o un presentatore con un libro in mano». In effetti sarebbe bello se Frizzi conducesse L’eredità con, che so, I Buddenbrook sotto braccio. Scherzi a parte, continuare a concepire il mezzo televisivo come fonte primaria ed esclusiva della sensibilizzazione culturale del paese è un macigno mica facile da frantumare. Fermi tutti: è senz’altro ancora vero per le fasce più anziane della popolazione, le più popolose d’Italia. Ma un governo di giovani e facce nuove, oltre a twittare come se non ci fosse un domani, dovrebbe forse parlare in modo diverso anche in questo delicato settore e capire che lì fuori c’è un ecosistema che sta cambiando. Nei metodi e nel merito.

Ha detto bene Massimo Turchetta, direttore generale libri trade della Rcs-Rizzoli, a Repubblica: «Premesso che lo stato in cui versa il nostro mercato editoriale non è così disastroso come lo si dipinge, penso che occorra uscire un po’ dal “ghetto” del libro in tv. I libri e i loro contenuti devono contaminare la televisione. È quanto è accaduto con il libro di Alan Friedman. Oppure con Gomorra di Roberto Saviano: un libro che ha dato origine a una fiction». O ancora, aggiungo io, con Masterpiece: talent per scrittori innovativo e intrigante, sebbene non privo di diversi vicoli ciechi. Due giorni fa ho visto su uno scaffale Vita migliore, il libro di Nikola P. Savic, il vincitore del programma di Rai 3 condotto da Massimo Coppola. Al netto delle evidenti considerazioni di marketing ho pensato esattamente una cosa del genere: finalmente non il titolo del giornalistone o l’ennesimo ricettario della Parodi ma qualcosa di trasversale. Forse perfino bello. Il fatto è che se il ministro della Cultura considera Rai, Mediaset e Sky come i principali operatori culturali nazionali – avesse detto la scuola, pure pure – sceglie di autotrincerarsi all’interno di categorie che sono cambiate perfino per quegli stessi soggetti. I quali, fra l’altro, guardano alla tv come hub multimediale anni luce dalla vecchia scatola da salotto. Ripeto: sono categorie ancora valide ma integrate negli ultimi vent’anni in un sistema di contenuti completamente diverso.

La cultura, da sempre, vive fra la gente. E ora che le persone trascorrono pezzi sempre più cosipicui delle proprie esistenze anche online, parte della cultura – che è il racconto e l’approfondimento che gli individui fanno del mondo e dei suoi connotati – passa da lì. Forse non l’hanno ancora capito: il mezzo non è più il messaggio, con buona pace di Mc Luhan e di generazioni di studenti di scienze della comunicazione. È il messaggio che inventa il mezzo e si espande a macchia d’olio su ogni canale possibile, mutando forma e registri. È l’era del contenuto, insomma, non più del contenitore. Che poi sia un libro cartaceo, un ebook (Franceschini, vogliamo parlare, non so, dell’iva sui libri digitali?), uno smartphone, una chiacchierata fra amici – ultimamente ne faccio di così potenti che perdo il conto delle ore e delle birre: abbiamo mille cose in più da dirci di cinque anni fa – una trasmissione televisiva, un video su Youtube o una webserie, un Tumblr o una cara, vecchia conferenza, anche se oggi le chiamano roundtable, poco importa. Serve davvero chiedere a Sky di mettere un volume sconosciuto fra le mani di uno dei suoi bellocci da tg? Boh. Insomma, è esattamente ciò che dice Turchetta: contaminazione. Sharing? Ok, chiamiamolo anche condivisione. Sapete, per dire, chi è il mio poeta preferito dopo Sandro Penna? Un caro amico che negli orari più assurdi, spesso in piena notte come tradizione pretende, sgancia versi pazzeschi sulla sua bacheca Facebook. Da poco ha deciso di sospendere queste pubblicazioni, perché qualcuno gli ha detto che così svende il suo talento. Risultato? Lui non ha più un canale attraverso cui dare sfogo immediato ai suoi pensieri e io ho meno belle parole da leggere. Che c’entra la tv con tutto questo?

cortesia dell’autore e www.wired.it